giovedì 30 novembre 2006

Più concorrenza per Totti


C’è Totti che girovaga in Ferrari e fin qui niente di strano, anche se non mi sembra il mezzo più adatto per andare a distribuire scatolotti, però er pupone su un Ducato non era sexy. C’è Gattuso che si fa la permanente sotto un casco da parrucchiere e un po’ anomalo è, ma Postatore Sano dice che è una trovata degna del miglior neorealismo alla Eisenstein. Poi c’è una biondona con curve in posti dove le altre donne non hanno nemmeno i posti, che afferra un monitor 14 pollici 4 colori, come non se ne vedevano dai tempi del Basic, lo solleva come se fosse vuoto e tenta di scaraventarlo a terra, tutto perché non le funziona la connessione a internet dopo che il centravanti della Roma gli è entrato in casa mentre dormiva per staccarle il cavo telefonico. Questo forse ha senso e qualche critico socio televisivo potrebbe supporre che l’avvenimento tende a dimostrare che la specie femminile è avvezza a dare le colpe delle proprie sventure al primo accrocchio che le passa sotto mano oppure che il calcio sta cominciando ad invadere la nostra vita in maniera ormai inaccettabile.
Infine, apoteosi del simbolismo, il calciatore di cui sopra afferra l’etichetta col numero di telefono fisso della biondona e lo ingloba nel telefonino tuttofare, rendendo il telefono fisso infisso così che possa uscire da porte e finestre. Questo gesto ha avuto due conseguenze di ampia portata: la prima è il mio stupore nello scoprire che ancora qualcuno ha il proprio numero di telefono etichettato sull’apparecchio di casa. Antica tradizione caduta in disuso quando un coraggioso innovatore si è chiesto “ma a che cacchio serve?”. La seconda è stata la baraonda scatenata da Telecom con conseguente blocco dell’iniziativa e degli spot. Perché? A causa di Gattuso che fa la permanente, penserete voi. No, anche io avrei scommesso su quello, invece si tratta delle solite beghe economiche. La Telecom sostiene che questa fantasiosa operazione commerciale si configuri come “illecito concorrenziale” e il tribunale di Roma, rifacendosi al saggio adagio latino “non si sa mai”, sospende tutto. Il che non deve essere salutare per il cuoio capelluto di Gattuso.
Concorrenza. Curioso che la Telecom sappia di che cosa si tratti. C’è stato un periodo, piuttosto lungo, diciamo che sfiora l’infinitudine, in cui la SIP (!) non ha avuto un solo straccio di competitore e ha fatto un po’ i propri comodini. Alcuni esempi. Perché devo pagare io le spese di spedizione della bolletta? Dove si è mai vista una cosa del genere (a parte in banca)? Se comprate un servizio su internet o via posta, quando arriva la fattura non arriva con il francobollo da pagare. Una volta mi arrivò una bolletta già scaduta e mi fecero pagare la mora (senza doppi sensi). Io vibrai sentita protesta e mi fu risposto di prendermela con le poste. La mia obiezione fu: “IO devo prendermela con le poste? Io sono cliente vostro non delle poste, le poste italiane sono un VOSTRO fornitore di servizi che VOI avete scelto di usare, per me potete mandarmi le bollette anche con dei levrieri afgani da corsa o con un pipistrello viaggiatore, ma se il VOSTRO fornitore di servizi lavora male ve la vedrete VOI non io. Dimmi te se per avere un servizio telefonico devo litigare con le poste, un bel paradosso no?”. La risposta del gentilissimo addetto fu “para...che???”.
E ancora: perché devo pagare canoni esagerati per servizi che per l’azienda hanno un costo vivo praticamente nullo? A metà anni novanta attivai il mio primo cellulare con la Tim. La burocratica operazione (che oggi sembrerebbe un rogito) mi costò 333.000 lirette. Poco dopo, sempre la Vodafone (che allora si chiamava Omnitel), offrì un’attivazione veloce e gratuita. Una settimana più avanti anche la Tim comincio a “regalare” contratti. E le 333.000??? Come fa un’azienda a portare a zero il costo di un prodotto che una settimana prima era 333.000? Aridateme i soldi! E se la Omnitel non fosse comparsa? Ci sarebbe ancora un truffaldino balzello di 171,98 euri?
Ma oggi le cose sono cambiate. Fare concorrenza alla Telecom è legale, solo che è impossibile. L’unica depositaria delle tecnologie e degli impianti di telecomunicazione sta rendendo il progresso lento, magari ragionato, ma lento, molto lento. Siamo agli ultimi posti in fatto di potenziamento delle linee e di allargamento e liberalizzazione delle offerte. Alla faccia del Voice Over IP e dell’adeguamento delle tariffe. Un inciso per i profani: il VOIP è un sistema che permette di telefonare a costi bassissimi attraverso la linea internet. E’ necessaria però una linea veloce che può fornire il detentore delle strutture, detentore che però avrebbe un calo del vantaggioso (per l’azienda) utilizzo delle linee normali… La fine dell’inciso fatela voi.
Liberarsi dal canone Telecom è ancora una chimera per la maggior parte dei cittadini che, frattanto, convivono con un’assistenza che non si impegna un granchè visto che non ci guadagna niente e non ha problemi di concorrenza. Sì perché anche l’ultimo miglio è solo una bella parola nota perlopiù ai maratoneti anglosassoni. La possibilità per altri gestori di portarvi in casa la loro connessione è una realtà solo sulla carta. Dal 1998 (data di inizio del processo di liberalizzazione) la Telecom ha reso possibile l’allacciamento per altre compagnie a circa 500 mila famiglie su 20 milioni! Di questo passo si potrà parlare di reale concorrenza tra circa un quarto di secolo. Così molti gestori sono costretti a proporre ai clienti il rimborso di un canone pagato obbligatoriamente per un servizio praticamente inutilizzato.
In questo scenario orwelliano fa un po’ senso sentire il colosso proprietario unico delle telecomunicazioni in Italia, lamentarsi di concorrenza sleale. Intendiamoci, magari la manovra di Vodafone è davvero un po’ acrobatica, ma a me quelle 333.000 lire mi stanno ancora sul piloro e credo che se nessuno metterà un po’ di pepe nel posto giusto alla Telecom, resteremo ancora per molto tempo in condizioni di effettivo monopolio e, cosa peggiore, in condizioni di arretratezza tecnologica ed economica, facendoci ridere dietro da mezzo mondo, persino da San Marino, con i nostri canoni, tariffazione a tempo e altre macchinazioni giurassiche.
Scusate, c’è giù Totti con la Ferrari che blocca il traffico e non se ne va finchè non mi regala 1000 euro di telefonate 4 cellulari e un monitor 14 pollici fracassato. Io gli ho detto di no, ma dice che se rifiuto mi fa svegliare tutte le mattine da Gattuso con un tackle in scivolata.

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martedì 28 novembre 2006

La vita non è un (micro)film


Avete presente i film di James Bond? Quelli dove tutti sono spie o controspie o amici di spie. Non ci sono persone normali, poliziotti normali o politici onesti se non per morire per mano di qualche psicotico megalomane che vuole sterminare il genere umano in un millisecondo, ma quando ha per le mani James Bond escogita un modo per ucciderlo lento e colmo di possibilità di fuga. Quei film dove una stilografica è un microfilm, un cappello è una centrale a fusione, un’automobile è all’occorrenza un aereo, un motoscafo o un capo di abbigliamento e il cattivo che si ravvede ha sempre uno stacco di coscia letale. Ecco, quei film hanno una caratteristica tautologica: sono dei film. Sticazzi!!!
Alle volte giungo a conclusioni sorprendenti lo so, ma non fatevi distrarre dal mio naso aquilino (nel senso di fiuto non di profilo). In questi giorni ascoltando i telegiornali con attenzione ci si accorge che tra il pallone d’oro a un giocatore di serie B e la moviola dello svenimento di Berlusconi, si staglia gagliarda una spy story alla Le Carrè: la morte dell’ex agente dei servizi segreti russi Litvinenko, avvelenato con il polonio 210. Ora voi non ci crederete, ma questa storia è vera, cioè questo tizio è morto davvero e dal fatto che non abbia abbandonato il mondo dei meno partecipando, novantenne, a un festino di cheerleader, si può dedurre che qualche altro tizio lo abbia tolto di mezzo per uno di quei motivi che nei telefilm del tenente Colombo vengono definiti “movente” con un tecnicismo di alta scuola.
Che ai media prema solo la parte romanzesca della vicenda è dimostrato dal completo disinteresse nei confronti degli elementi determinanti che renderebbero la storia dannatamente reale e preoccupante, perdendo quel fascino che ci fa addormentare con un libro di Fleming sulla faccia. I riferimenti alla commissione Mitrokhin, all’omicidio della giornalista russa, alle vicende di Cecenia, al fallimento della Yucos e a Paolo Guzzanti, sono solo accennati speditamente per non rendere troppo noioso l’intreccio. Però una cosa lascia veramente inebetiti. Non ho trovato scarabocchiato in qualche tabloid da un euro o sussurrato da una tgrotocalco, nemmeno una parola sull’arma del delitto. Dico, qualsiasi investigatore da strapazzo sa quanti elementi (in questo caso chimici) può fornire l’analisi dell’arma utilizzata… persino Derrik. Per Cogne si piange miseria da anni perché non si è trovata e qui che c’è viene snobbata come una maglietta fuori moda.
L’arma usata per un omicidio suggerisce spesso alcuni dettagli sul colpevole (se è uomo o donna per esempio) e sulle circostanze in cui si è svolto l’atto criminoso (se premeditato o frutto di raptus).
Io non ho scritto nemmeno un libro giallo eppure la prima cosa che mi sono chiesto è stata “perché il polonio?”. Quanti modi ci sono per uccidere un uomo? Molti di più di quelli per tenerlo in vita. Allora perché un sistema così plateale? Perché utilizzare un veleno che dice così tanto dei colpevoli quando si poteva simulare un incidente, un infarto, un aggressione di un balordo e altre trovate a cui si è già fatto ricorso? L’omicidio è anche un messaggio. Per forza.
Il polonio non è certo un veleno che passa inosservato e chi l’ha usato doveva conoscerlo bene o adesso sarebbe molto in ansia. Teoria supportata dall’utilizzo dell’isotopo con minor tempo di dimezzamento (emivita per dirla in maniera più sexy) e comunque anche il più “economico” da produrre. E’ un metalloide rarissimo: in natura se ne trova nei minerali dell’uranio in concentrazione di 100 microgrammi per tonnellata. Roba che non si trova dal pizzicagnolo insomma o come direbbero nei telefilm “il cerchio si restringe molto”. Altrimenti è possibile ottenerlo sfruttando i neutroni prodotti nei reattori nucleari, altra risorsa che non puoi certo comprare a rate da mediaworld. Queste le deduzioni più ovvie, ma si potrebbe andare ulteriormente a fondo. Gli assassini non hanno certo voluto fare un “lavoretto pulito”, anzi. La tollerabilità del polonio da parte dell’organismo umano è di 6,8 miliardesimi di grammo. Avete presente un miliardesimo di grammo? Io no e credo nemmeno gli autori dell’avvelenamento visto che hanno praticamente contaminato mezza Londra. Perché tanta grazia, tanta voglia di “far vedere”? E di nuovo, perché un veleno così particolare, così raro eppure così identificabile? Perché non il radio o un veleno da nonnina stile arsenico e vecchi merletti?
Il polonio è stato scoperto dai Curie nel 1902 e fu così chiamato in onore del paese di nascita di Marie Curie, ma anche per porre l’accento sulla situazione della Polonia, in lotta per rendersi indipendente… dalla Russia. Esattamente come la Cecenia, su cui stava indagando la Politkovskaya di cui Litvinenko era informatore (uccisa con delle banalissime revolverate). Il polonio fu il primo elemento chimico con una valenza geopolitica. Questo potrebbe far pensare con un buon margine di sicumera, che i mandanti vadano cercati verso est. Eh, si vede proprio che non leggete i gialli. Se la mano insanguinata provenisse da lì, non avrebbe lasciato così tante tracce (pure radioattive), quindi è possibile che qualcuno voglia far credere che il killer provenga dal freddo. Eh, si vede che leggete pochi gialli. Forse sono state lasciate così tante tracce proprio per far ritenere assurdo che i servizi segreti russi si siano mossi con tanta goffaggine e quindi depistare.
Bella storia vero? E io so solo quello che qualsiasi persona normale (cioè quelli che muoiono tranquillamente nei film di spionaggio) può sapere.
Ma qui nessuno vuole scrivere libri. Forse sarebbe il caso di ascoltare e proteggere le persone che sanno più di me e che stanno rischiando la vita in nome di verità che vengono nascoste facilmente grazie al fatto che pochissimi le vogliono ascoltare. Forse è il caso di dar peso a ciò che dice Paolo Guzzanti, invece di pettinare bambole sulla sua tendenza politica, perché qui le persone muoiono davvero e quel mondo che ci sembra lontano e romanzesco, fatto di controspionaggi, intrighi internazionali e complotti occulti esiste davvero e il terrore dei londinesi è una delle tante conseguenze. Solo dando voce alle verità che fa comodo nascondere, si potrà indebolirlo.

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domenica 26 novembre 2006

Ausonio & Esperio #6






















Soggetto e sceneggiatura: Cruman
Grafica digitale e rendering: Bubi

venerdì 24 novembre 2006

Matrix Reality (segui la cozza)


Avevo appena spento il computer e con lui tutte quelle entità che ci vivono dentro, quelle con cui comunico quando l’accrocchio meccanico è acceso e che poi vanno in uno di quei posti misteriosi, tipo dove si rifugiano le zanzare d’inverno, finchè non do di nuovo corrente per inserirmi nella rete di gente come me, che detesta i vicini di casa per il semplice fatto che sono vicini.
Avevo spento, sono sicuro, ma lui non era convinto e si riaccese d’iniziativa. Io feci un’espressione da film dell’orrore di ordine non primo, giusto per un tempo da copione, poi staccai la spina e andai verso il letto dicendo qualcosa su Edison ed altre divinità. Ma lui rifiorì anche senza spina. E mi parlò: disse “segui la cozza”. Feci qualche altra espressione e aprii il forno a microonde. In quel momento bussarono alla porta. “Non è finita qui” pensai verso il computer e andai a vedere all’uscio se qualcun altro si voleva candidare alla microcottura. Era un testimone, ligure credo, non ho capito bene. Con lui una ragazza, credo, qualcosa di prossimo a una ragazza. Mi dissero che seguendoli avrei cambiato la mia vita e vinto uno sconto per un abbonamento a Torre di Guardia, da oggi alla fine del mondo. Lei era davvero poco piacente… una cozza insomma. Sulla spalla aveva tatuato un limone… li seguii. Mi portarono a una festa spensierata, dove alcune cubiste si dimenavano consapevoli di aver ereditato l’errore dei progenitori che si sono resi indipendenti da Dio e anche un discreto fondoschiena. In un angolo, appoggiato a una colonna c’era il solito disadattato: rideva, beveva e scrutava culi senza capirne il significato intrinseco.
Seguii la cozza. Mi condusse all’interno di un salone arredato da due poltrone e un uomo che ne utilizzava una. L’uomo si alzò e distinguendosi dalle poltrone, parlò.
“Il mio nome è Orpheus, ma puoi chiamarmi Luciano” disse quasi senza muovere un muscolo, tanto che avevo ancora qualche dubbio sulla possibilità che fosse una poltrona.
“Che cosa vuoi da me… Luciano?” chiesi infastidito dall’ambiente e dal chinotto e red bull bevuto al bar escatology.
“Io ti propongo la scelta più importante della tua vita, di quella che tu credi sia la tua vita” e tirò fuori dalle tasche le sue mani mostrandomi due bussolotti colorati “pillola bianca: questa serata non sarà mai successa, ti sveglierai nel tuo letto e continuerai la tua triste vita tra fotomodelle, macchine veloci e soldi. Pillola marrone: la tua consapevolezza raggiungerà livelli che non puoi nemmeno immaginare, la coscienza si espanderà fino a farti male, la conoscenza ti apparterrà, tu sarai la conoscenza, nessun mistero, nessun dubbio, nessun dogma, nessun dorma”
“Strane pillole, che forma hanno?” dissi fingendo di non prestare attenzione.
“Ehmm… sono supposte, le pillole le abbiamo finite”
“Un’endovena?”
“Non distrarti ora, hai poco tempo per decidere. Per scegliere di sapere che cosa succede davvero attorno a te, di uscire dalla realtà che ti hanno costruito intorno e vedere con i tuoi occhi la verità. Saprai quello che non dicono sui più grandi misteri della storia, saprai la verità sui poteri che muovono il mondo, sulle armi e le malattie create dall’uomo, saprai quello che non si dice sul cancro, sui retrovirus, sulle medicine, su armi batteriologiche, su folli piani di controllo dell’umanità, sui governi, sui servizi segreti… a proposito, il tuo vicino di casa è Bin Laden
“Ecco perché quella carta da parati finto roccia” mi aveva scosso ma non volevo darlo a vedere.
“Sei scosso vero?”
Fanculo, pensai.
“A soreta. Lo capisco, ma abbiamo bisogno di gente come te, dobbiamo risvegliare il pianeta, dal torpore e dal controllo mentale che subisce” disse porgendomi la supposta marrone (colore che gettava dubbi sul reale percorso che la riguardava).
“Fammi capire. Devo rinunciare alla mia vita divertente e colma di soddisfazioni, per immergermi in uno scenario catastrofico, fatto di dolore e morte?”
“Vedo che cominci a capire, mi fa piacere, che cosa decidi?”
“Aspetta che ci penso… NO!”
Era deluso ma non voleva darlo a vedere.
“Sei deluso vero?” chiesi malcelando soddisfazione e un ruttino da red bull.
“No, l’Oracolo aveva previsto tutto. L’Oracolo non sbaglia mai, i suoi messaggi sono di difficile lettura, ma dopo aver parlato con lei non sei più la stessa persona (l’Oracolo vuole anche 200 euri a previsione). Ma tu devi vincere le tue paure, io ho fiducia in te, tu sei l’Eletto”
“No guarda, secondo me avete contato male i voti o qualcuno ha fatto il furbo con le schede bianche. E poi io non ho votato, non mi è arrivata la comunicazione, non vale, tutto a monte.”
L’atmosfera si faceva nervosetta e per evitare problemi simulai un qualche interesse.
“Ma conoscerò davvero tutto il conoscibile? Anche l’esistenza di Dio, che cosa ci aspetta dopo la morte, avrò poteri sovrumani e saprò tutto su Andreotti?”
“Ora non esagerare, su Andreotti non possiamo garantire, ma avrai i copioni di tutti i reality televisivi”
“Non mi interessa” dissi dirigendomi verso la porta. Poi un sussulto, il ripensamento che è luce della saggezza. Mi fermai, mi voltai e chiesi “se ne prendo mezza mi dici se è stata la Franzoni?”
In quel momento squillò un telefono e dal nulla apparvero due uomini in nero che mi afferrarono con violenza bloccandomi e costringendomi in una posizione che non prometteva nulla di buono. La cozza mi abbassò i pantaloni e sentii i passi di Luciano che solo in quel momento (per strane associazioni mentali) realizzai essere un nerboruto omone di colore.
Non so che cosa successe dopo. Non so che cosa mi fu “somministrato” so solo che tutta questa faccenda mi brucia ancora.
Ah, già che sei qui che leggi, il tuo capo è un ibrido innestato con DNA alieno.

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giovedì 23 novembre 2006

Il rosso e il nero

Sdoganare il terrorismo è la moda del momento. Una volta faceva molto tendenza vantare amici gay, adesso vale come il due di picche: se non ti fai vedere a braccetto con l’ex eversivo di riferimento non sei nessuno. Tra le istituzioni politiche c’è una vera e propria corsa alla riabilitazione: benefici vari, grazie (di nulla), condoni, amnistie, ma non solo, se sei davvero uno cool e ci sai fare, ti aspettano lauree, cattedre, case editrici, poltrone statali e compagnia bella.
La cosa che questi nuovi modaioli non sanno è che non hanno inventato niente di originale. I terroristi neri hanno goduto del medesimo trattamento già diversi anni fa, con la differenza che nessuno ne ha parlato. Per qualche motivo di cromia, si fa sempre un gran parlare della lotta armata rossa, delle BR e di Lotta Continua, ma nessuno spreca mai parole per Ordine Nuovo, Ordine Nero, Rosa dei Venti, Avanguardia Nazionale, i NAR e moltissimi altri nuclei d’azione. Negli anni di piombo, l’estrema destra viveva un fenomeno poi battezzato “spontaneismo armato”: i giovanissimi, fomentati ad arte (quindi non così spontanei come sembrerebbe) erano talmente numerosi e vogliosi di agire che anche per fare una rapina bisognava prenotarsi mesi prima.
Moltissimi attentati sono rimasti impuniti e tra quelli che invece sono finiti in carcere (tutti nomi che direbbero poco ai più) quasi nessuno si è pentito o dissociato e chi l’ha fatto è stato uccciso. Mambro e Fioravanti in questo quadretto fanno quelli che pagano per tutti, quelli famosi. Poi c’è anche un tizio, un certo Vinciguerra che ha praticamente esatto l’ergastolo per sé per la strage di Peteano e ha detto tante cose, su militanti ancora in giro e attivi, su assassini arrestati che hanno continuato a esibire la loro inclinazione anche in carcere e che ora godono di benefici di stato.
Per dovere di cronaca (anche se datata) Mambro e Fioravanti hanno sempre rifiutato ogni addebito inerente la strage di Bologna. Una strage che (insieme a Piazza Fontana) ha mietuto vittime per anni. Testimoni, attivisti sulla via del cedimento, persone informate… tutti colpiti da accidentali suicidi da sviste automobilistiche, da infarti polmonari (facendo il verso alla patologia che colpì i testimoni del caso Kennedy, noi copiamo sempre dagli americani). Ma di tutto questo non si sa nulla, non si è mai smosso granchè. Anche se si dice, si pensa. Gli esperti della gestione del potere sanno come vanno queste cose, sanno chi è cosa, e sanno che il popolo bue va coccolato e strigliato come un bimbo, senza dirgli che babbo natale è in realtà un ciccione ubriacone pagato due lire da una catena di grandi magazzini. Pare che l’unica cosa che è successa in Italia negli ultimi 40 anni sia il caso Moro. Il nero sfina.
Allora uno ripensa a Moggi. No non è un terrorista, però per anni tra i banconi dei bar, si è sussurrato che nel calcio comandava lui, ma nessuno diceva niente. Era come una leggenda metropolitana, spesso tacciata di fantapolitica o complottismo. Poi viene fuori che la fantapolitica tanto fanta non è. E poi uno ripensa alle altre parole di Vinciguerra. A quando diceva che in qualche modo il braccio armato dell’estrema destra “stava simpatico a qualcuno”, quando parlava dell’utilizzo fatto dei nazisti nel dopoguerra per creare organizzazioni e strumenti (leggasi armi) per contrastare la minaccia rossa. Ai collegamenti politici, militari, massonici, con il Mossad, il Sid, il SISMI, la CIA il servizio segreto argentino, Gladio, la NATO e ad andare avanti non si sa se ridere o sentirsi un po’ Truman Show.
Insomma lo sdoganamento dell’eversione non l’ha inventato l’attuale governo, tant’è che più di dieci anni fa la Mambro si fece sfuggire un inquietante “noi siamo in carcere e voi al governo”, solo che per il terrorismo nero è passato inosservato e non si capisce perché.
O meglio, io non lo capisco… anzi io non lo so, posso immaginarlo, ma non lo so. Certo si potrebbe puntare a quei famosi archivi coperti da segreto di Stato. Obiettivo perseguito dalle associazioni dei familiari delle vittime (altra entità completamente ignorata, che non gode di alcun beneficio e di pochissime proposte politiche a suo favore), ma “qualcuno” pensa sia una speranza mal riposta a causa della distruzione di molte cartacce colme di verità troppo vere per il popolo bue.
Ma quello che penso è sbagliato, qualsiasi cosa sia. Le cose succedono a un livello diverso, quasi sempre per ragioni differenti da quelle che paiono ovvie e seguono percorsi non scrutabili dai più.
Se fosse così “semplice”, non si spiegherebbe perché il PCI, arrivato al potere, sia rimasto inerte, non abbia aperto archivi o inasprito pene per i reati di depistaggio che hanno seppellito uomini e inchieste intorno a Ustica, l’Italicus, Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Bologna eccetera eccetera. Non si spiega come oggi in Italia regga un governo Prodi, alla faccia del rinnovamento e del progressismo. Un uomo già presente spiritualmente (nel senso di sedute spiritiche) negli anni di piombo, già sospettato di rapporti con i servizi segreti russi quasi 30 anni fa e additato come politicamente incapace da mezzo mondo occidentale durante il semestre di presidenza europea. E non si spiega come il caso Litvinenko sia stato archiviato con una fretta maggiore di quella che ha caratterizzato l’omicidio Politkvoskaia. E ai pochi a cui interessa la verità un po’ più di della crisi del milan, viene da chiedersi perché nessun giornale parli di Paolo Guzzanti (che guida i lavori della commissione Mitrokhin) per cui Litvinenko è stato informatore per anni (così come per la Politkvoskaia). Oggi Guzzanti è probabilmente sotto tiro di organizzazioni che hanno tanti di quei modi per farti fuori che fanno a chi si inventa il più fantasioso. Probabilità sostenuta dal fatto che ora Guzzanti gode dello stesso livello di protezione dell’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede.
Intanto sulle prime pagine dei giornali si accenna con coraggioso sdegno alla mancata restituzione de l’Afrodite da parte del museo Getty.
Le organizzazioni eversive di destra prolificano ancora, con sigle nuove, ma probabilmente gestite da nomi vecchi. Il KGB ha cambiato identità e i servizi italiani hanno cambiato dirigenza, ma pare che il potere occulto rosso abbia solo sbiadito un po’ i toni per rendersi meno chiassoso, ma non meno pericoloso. Insomma destra o sinistra che sia, qualcuno gioca a Mission Impossible, creando armi di ogni tipo (anche chimiche e biologiche) calpestando vite innocenti e diritti. Qualcuno che a differenza di Tom Cruise, fa molta fatica a esprimere la sua mascolinità o a superare un brutto o morboso rapporto con la madre. Mentre noi andiamo a fare la spesa sperando di essere scelti per il prossimo grande fratello e entrare un po’ nel sistema, quello vero.

Rosso o nero… fate il vostro gioco… rien ne va plus.


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lunedì 20 novembre 2006

Niente sesso, siamo in classe


Che il sesso polarizzi attenzione e veicoli le masse, gli esperti di marketing più avvertiti lo hanno imparato bene, ma la vera rivoluzione ipnotica è lo spaccio di morbosità. La morbosità come fenomeno comunicativo consiste nel fornire, con finta marginalità, risposte a domande che la gente si vergogna di fare e a volte persino di pensare.
In questa mezza stagione in via di estinzione, sono i pruriti adolescenziali a tenere banco (e anche un po’ cattedra), relegando calciatori e attempate pin up a una penombra ingloriosa, ma degna dei contenuti espressi. Questi ultimi, per quanto belli e famosi, nulla più possono concedere alla viscerale e mai satolla tenia della morbosità, avendo ottenuto ribalte per la loro prole ricca ma scevra da meriti e financo per le loro placente da collezione.
Opulente di dettagli scabrosi è invece la vicenda della professoressa scopacchiona (meritevole di aver gettato una luce neorealista sul cinema trash anni ’70), colta – in quanto insegnante un po’ hippy quindi figlia dei fiori – insieme a giovanissimi studenti a prendersi reciproco diletto. Di letto.
I giornali ne hanno parlato profusamente, almeno finchè hanno avuto particolari goderecci da snocciolare. Trasfigurando le informazioni in preoccupante risvolto socio culturale, si è fatto incidentalmente cenno alla posizione esatta coreografata dalla signorina, alla reale area anatomica esposta alle intemperie e all’onanismo diffuso di chi contemplava non essendo stato bocciato un numero sufficiente di volte per partecipare in forma attiva all’orgia istruttiva. Queste fondamentali informazioni, succulenta esca, hanno attratto una perniciosa attenzione, anch’essa mascherata da profondo dissenso e impegno civile, che ha spinto i media ad aggiornare costantemente la sceneggiatura del convivio dionisiaco. L’allarmante degrado dei valori è stato così corredato da una professoressa prima nuda e supina, poi in ginocchio non per preghiera, ma per peccato di gola, poi vestita, ma con un seno a fare capoccetta e allegra compagnia cantando.
I risultati di questa fiera denuncia sociale sono grossomodo questi: un manipolo di mamme preoccupate e imbufalite, un nutrito gruppo di papà insolentiti che ripensano con invidia e rammarico alla grinzosa insegnante della loro giovinezza, un bulletto sopraffatto dall’ego che dopo cinque anni di scuole medie (ci si trovava bene, particolarmente con il corpo insegnanti) è diventato eroe della nazione adolescente e una professoressa un po’ porcella senza lavoro, ma con milioni di piccoli fan. Il tutto prevedibile come la pioggia nel week end.
A Livorno, una decina di ragazzini tra i 15 e i 18, si divertiva a sperimentare il gusto proibito della trasgressione e del sentirsi grandi prima che sia troppo tardi (cioè prima di essere davvero grandi e non divertirsi più) realizzando anche piccoli filmati con i vituperati telefonini con cui qualcuno, a volte, telefona pure. Un’accorta mamma li ha scoperti e ha allertato le forze dell’ordine che, dopo accurate indagini, hanno denunciato tre giovanotti per detenzione di materiale pornografico.
Possono fare sesso, ma non possono guardarsi mentre lo fanno. Ne trarrebbero un cattivo insegnamento o, peggio ancora, potrebbero rimanere traumatizzati. Ovviamente l’accento è stato posto su questi fantomatici filmini e lo sdegno seguente ha preceduto un incremento vertiginoso delle ricerche su google con la chiave “livorno filmini sesso studenti”.
Forse un po’ di vero sdegno servirebbe. Io alle volte mi accontenterei di un cenno di onestà intellettuale. Del tipo di Cronaca Vera che almeno ti promette, senza pudori, dettagli scabrosi per qualche euro e un minuto di vergogna dall’edicolante. I giornali seri invece si occupano di aspetti culturali, di educazione, ma titolano con frasi afrodisiache e imbottiscono gli articoli di dettagli da bar, perché sanno che questo attira le persone serie, perplesse dal tramonto dei valori.
L’educazione è prima di tutto una questione familiare, poi della società che purtroppo è lo specchio dei tempi. Negli ultimi anni va di gran moda demonizzare l’uso smodato di tecnologia evoluta (così definita in rapporto a chi la utilizza), ma quando ero ragazzino io (nel secolo scorso) le cose non erano diverse. C’erano i prepotenti, c’erano quelli che proprio non potevano avere 15 anni, magari erano loro a non volerlo, ma certo è che la barba e una costante tendenza ad accoppiarsi, non facilitavano la transizione puberale. E non è che trattenessero la loro naturale ferocia perché non avevano un cellulare con la videocamera per immortalarla. Magari la televisione non era così invadente, eppure Pasolini (tanto osannato dagli intellettuali) non raccontava certo realtà giovanili incorniciate da fate turchine e buoni sentimenti.
Io non sono un buon target di mercato. A me non interessa conoscere ciò che dovrebbe essere privato e mi cruccio, sinceramente, di non capire che cosa spinga le persone ad accapigliarsi per la morbosità più gretta. A fingere interesse di alto profilo per godere in proprio gli orgasmi degli altri. Penso sempre che queste persone siano le stesse che si allungano dietro a un inviato della tv e fanno ciao con la manina cercando invano di contrastare un’espressione ebete. Le stesse che pagano per guardare un castello pieno di attori che si sposano e che assistono altri mentre lo fanno. Un castello che, visto da fuori, è identico a uno vuoto o pieno di maestranza delle pulizie.
Oggi ho sentito l’ultima – spero – puntata del matrimonio di un uomo basso, ma molto ricco, americano, con una donna alta, ma molto bella, sempre americana. A qualcuno deve aver fatto piacere sapere che il rito si è svolto secondo i dettami di Scientology e che lui, per tradizione, ha donato a lei un gatto, una pentola e un pettine, in cambio della promessa di felicità. Mica scemi questi di Scientology, ottimo affare direi. Certo che se io fossi il gatto, mi farei qualche scrupolo ad essere regalato insieme ad una pentola. Meno male che non si sono sposati a Vicenza.

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domenica 19 novembre 2006

Ausonio & Esperio #5






















Soggetto e sceneggiatura: Cruman
Grafica digitale e rendering: Bubi

venerdì 17 novembre 2006

Un posto in libreria... o no?

È paradossale come il meno adatto di noi tre si trovi a scrivere per primo la recensione di un libro per il blog. Cruman è un vero cultore della carta e la divora letteralmente (non è una tarma, intendo nel senso che legge molto), e anche Postatore non è da meno seppur sia vero che con il suo mestiere si trova ad avere a che fare molto più spesso con la carta patinata dei periodici che con le copertine rigide. Dei tre, fatto sta, sono sicuramente l’unico che trovando in libreria l’ultimo libro di Fabio Volo ha avuto l’impulso di comprarlo e così provo a raccontarvi com’è andata.

Premesso che molti dei libri di casa mia, esclusi per ovvi motivi i tomi universitari, sono ancora vergini eccezion fatta per le prime pagine, ho affrontato la lettura di getto prima ancora che la copertina prendesse polvere. E questo, per il lettore bolso che sono, è già un successo. L’altra cosa che mi ha stupito, e che non mi succedeva da un sacco di tempo, è che son riuscito a leggerlo tutto d’un fiato, complice una domenica passata a sonnecchiare fino alle tre del pomeriggio con il conseguente strascico di insonnia che ne è seguito. E in quattro ore “Un posto nel mondo” era già finito.

Michele ha trent’anni e come tutti più o meno a quest’età si ritrova a fare i conti con la propria vita. Un lavoro che lo fa sentire in gabbia, le relazioni sentimentali che finiscono non appena si esaurisce l’entusiasmo iniziale e un amico fraterno che colto dalle medesime paure decide di mollare tutto e partire per ritrovare se stesso. Fin qui, a dire il vero, niente di nuovo: negli ultimi anni in tv e al cinema si è visto virtualmente di tutto sull’argomento, quasi il raccontare il disagio dei trentenni fosse il solo modo di fare numeri ai botteghini.

Logico, quindi, partire prevenuti e aspettarsi da chi è arrivato qualche anno dopo “sul pezzo” qualche spunto in più: come dire, se l’autore ha avuto più tempo per pensarci avrà tirato fuori pure qualcosa di originale, no? Più ci penso e più mi rendo conto che è stato probabilmente questo interrogativo a spingermi a divorare il libro, a cercare il colpo di scena o la svolta. Che invece non arriva mai, dato che per come è strutturato il racconto (che di fatto è una retrospettiva dei cinque anni precedenti raccontata dal protagonista mentre dalla sala di attesa di un ospedale aspetta che la sua compagna partorisca) l’unica sorpresa è scoprire che in cinque anni possono starci un viaggio, un figlio, una compagna ritrovata e un amico perduto. C’è tanta morale in questo racconto, ma è la stessa che tutto sommato puoi trovare anche nei film di cui si parlava sopra: che la vita ti rincoglionisce, che devi andare alla ricerca di te stesso o corri il rischio di essere meno importante del numero di serie del cartellino che timbri ogni mattina, che i figli spesso sono solo un collante per un rapporto sentimentale che da solo non si regge. Ma allora che c’è di nuovo, di non banale?

Quando ho appoggiato il libro sul comodino non mi è affatto venuta voglia di alzarmi (anche perché erano le tre del mattino passate… dove cavolo andavo?) e partire. Non mi è passato per la testa, nemmeno lontanamente, di preparare la valigia e lasciare un biglietto sul tavolo con su scritto “io ci provo, ciao”. Così mi son chiesto: son sbagliato io o forse questo racconto non è riuscito a cogliere nel segno? E dire che gli elementi ci sono tutti: il lieto fine (perché a dispetto di ciò che succede nel corso del racconto il protagonista afferma di aver trovato la propria felicità), la morale, un pizzico di filosofia e pure qualche episodio divertente. Mentre mi addormentavo mi sono pure dato una risposta (come Marzullo insegna…): quello che più mi ha deluso è stato notare che l’accento sia posto sul fatto che per trovare la felicità sia necessario dare un taglio con tutto. Mollare il lavoro, la famiglia, gli amici e dedicarsi solo a se stessi, sperando che qualche coincidenza arrivi a innescare un processo di cambiamento che altrimenti, nel proprio mondo, proprio non potrebbe avvenire.

È come se l’amor proprio, la volontà e la consapevolezza di voler cambiare ciò che non ci piace non siano sufficienti perché in fondo, senza una “scossa”, gli uomini sono troppo stupidi per capire se sono felici o no.

A mio parere la formula magica che Michele racconta non è così miracolosa. Ha un po’ il sapore di “meglio ricchi (dentro, ovviamente) e felici che poveri e tristi”, ma questo lo sanno tutti. Sarebbe stato più interessante se le perle filosofiche inserite nel racconto avessero fatto riflettere il lettore su come sia ben più difficile trovare la felicità in quel che la vita regala tutti i giorni, senza andarlo a cercare in un mondo completamente diverso e lontano. Perché anche per quello ci vuole un bel coraggio, altro che fare un biglietto aereo per Capo Verde. A me piacerebbe leggere un libro, o vedere un film, che mi faccia sognare raccontando di un mondo in cui le persone riescono, a volte, a non essere apatiche e insoddisfatte. E che soprattutto mi racconti, senza sminuirle o farle sembrare un semplice “accontentarsi”, le soddisfazioni che si possono cogliere quotidianamente. E questo indipendentemente dal fatto che io sia o no soddisfatto della mia vita: semplicemente per arricchirmi un po’, per capire tutti i punti di vista e poi a ragion veduta valutare di cosa ho bisogno per essere felice.

Detto ciò, quel che mi è rimasto dell’ultimo libro che ho letto è una soddisfazione pari a quella che mi resta dopo essermi sciroppato in fila quatto episodi del tuo telefilm preferito: un bel senso di leggerezza e la soddisfazione di essermi dedicato a un po’ di sano ozio. Forse Fabio Volo non si aspettava questo da me, ma io ve l’avevo detto che sono un lettore bolso.


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mercoledì 15 novembre 2006

Neurostar


Prima d’essere mesotopia, dimensione interinale fra partenza e destinazione, l’Eurostar è un treno. Quello coi sedili tipo le poltroncine dell’aereo (ma non essendo un aereo, non vola e ha i finestrini grandi dove puoi guardare bene fuori).
Fra le genti che non si servono della RFI, l’Eurostar è considerato un mezzo di trasporto d’invidiabile figherìa, roba da uomini d’affari o almeno da rappresentanti di commercio, però questa è solo una credenza popolare: in realtà è l’unico treno che può prendere colui che ha come obiettivo d’arrivare a destinazione pettinato così com’è partito. Essendo io un barbiere, non ho altra scelta.
Sull’Eurostar imperversa l’elettronica di consumo. Quasi tutti hanno due telefonini, uno piccolo di vecchia generazione che è utile, uno grande di nuova generazione con dentro la TV colle partite di calcio, i grandi fratelli e altre flatulenze di varia natura, che invece è inusabile perché con tutte quelle gallerie l’UMTS è come il deretano della ùnzicher: si sa che esiste, ma solo per sentito dire. Da ciò traggo l’insegnamento che non tutti i mali vengono per nuocere.
La folle densità di telefonini dev’essere ben nota ai capotreni (e alle capotrene), che di quando in quando arringano la folla attraverso l’altoparlante invitando (con voce più gradevole se capotrene) ad abbassare per favore la suoneria per non arrecare disturbo agli altri viaggiatori. Giacché taluni si sentono più altri di altri, in media per ciascun vagone ci sono almeno cinque scimpanzè colla suoneria folk volumata a manetta, di cui quattro ricevono tre telefonate ogni due gallerie a causa delle quali cade la linea, e di cui uno riceve zero telefonate ma ne fa quattordici l’ora vociando in un idioma a me ignoto. Da ciò traggo l’insegnamento che gli affari sono internèscional e che ‘sto treno – prima o poi – arriverà per forza a chiamarsi globalstar, e quel giorno tutti saremo più buoni, miscelati e sereni, uomini, donne e bestie, come sulle copertine della torre di guardia.
Visto che in treno non si sa mai come ammazzare il tempo, molti abitanti dell’Eurostar, oltre ai telefonini, hanno un notebook. Qualche anno fa mi ricordo che quelli che cipollavano col notebook sull’Eurostar (sono 22 anni che prendo l’Eurostar) erano solitamente muniti d’un iBook fighissimo. Ora che sono diventati bianchi e argentati anche i PC, quelli con l’Apple sono sempre meno, e di solito hanno i capelli lunghi. Da ciò traggo l’insegnamento che questi tali non spendono per nuocere.
Anch’io ce l’ho, un notebook, e su questo treno che è mezzo vuoto e mezzo pieno e va veloce lo sto usando per vergare perle di saggezza per CLDH. La mia impressione è di essere l’unico a fare una cosa del genere, cioè a usare il tasto “m” per scrivere “m”, il tasto “g” per scrivere “g” e via digitando. Altri, beati loro, col notebook si guardano i filmetti in DVD. Due di questi spettatori sono a tre metri da me e condividono l’auricolare stereo un orecchio a cranio. A me a vedere una scena simile mi viene da pensare ai residui di cerume. Da ciò traggo l’insegnamento che a me mi non si dice (infatti, l’ho scritto).
Fra i numerosi mesoluoghi che ho avuto l’avventura di frequentare, l’Eurostar è il solo che sembra favorire il passaggio di comunicazioni da e verso l’esterno impedendo nel contempo quelle fra i suoi abitanti. Un paradosso senza pari. Lasciando da parte la maggioranza, ossia coloro che sono dediti alle telecomunicazioni e informano indifesi interlocutori di essere sul treno, di essere appena partiti o partiti da un po’, di essere in ritardo o in orario o a Firenze o a Bologna o non lo so, non si vede un cazzo fuori perché è notte, e togliendo anche le minoranze impegnate nella lettura e nel PCinema, se credi di aver individuato un umano a cui dire buongiorno o buonasera, hai il 98,567% delle probabilità che si tratti di un cenobita mp3. I cenobiti mp3 si sono diffusi sulla terra da pochissimi anni e sono fra i derivati umani più infidi, perché capaci di fissare le loro vittime con aria pseudointerlocutoria, muovendo la bocca ed emettendo flebili suoni. Ma guai a rispondere: si rischierebbe una figura di merda, perché la mimesi del cenobita mp3 si realizza attraverso l’illusione della conversazione incipiente, subito rotta dall’apparizione degli inequivocabili e candidi auricolari dell’iPod.
Da ciò traggo l’insegnamento che sull’Eurostar non si riesce a intavolare una chiacchierata, a organizzare una partita a carte, a insidiare le femmine. Niente di niente. Solo una volta, ma proprio perché ero salito di straforo e non avendo il posto prenotato facevo il viveur nella carrozza ristorante, sono riuscito a conversare di geografia astronomica con una fata aliena dai capelli nerissimi. Però poi è scesa a Firenze spezzandomi il cuore.
Da ciò traggo l’insegnamento che sull’Eurostar si è molto soli, anche se il treno è molto affollato, non c’è spazio per allungare le gambe senza fare piedino a quello di fronte e, alla faccia dell’aria condizionata, l’atmosfera gocciola d’umanità.

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lunedì 13 novembre 2006

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Zero non è un concetto così semplice da assimilare. E’ un numero, ma in realtà non è. Si comporta in modo bizzarro a seconda di come lo usi. Se vuoi sommare o sottrarre, lui fa l’indifferente, fa come se la cosa non lo riguardasse. Se moltiplichi invece rade al suolo qualsiasi cosa. Tu puoi prendere anche il numero più grande che si possa immaginare, elevarlo a potenze assurde, fino a che nemmeno una rete di playstation riuscirebbe a contarlo, poi lo moltiplichi per un pulcioso zerino e rimani con un pugno di mosche. Questo nonostante una soubrette in televisione abbia argomentato la teoria secondo la quale 3 per 0 dia 3, sostenendo che se ho 3 cose e non le moltiplico per nessun numero, mi rimangono le tre cose. Poco ci mancava che distraesse l’attenzione del pubblico dalle sue tette.
A dividere poi, non ci provate nemmeno, che lo zero si insolentisce e smantella le basi stesse della realtà modellizzata. Insomma lo zero fa un po’ la star. Si prende anche il lusso di essere minore di uno. Se fossi una mente umanista o, come molti, matematicizzato il giusto per controllare il resto alla coop, ti verrebbe da dire che zero è minore di qualsiasi numero, non essendo nulla. E invece no (o invece zero in caso di logica binaria), zero è maggiore di –1 e pure di –2 e se è possibile, è maggiore in misura maggiore di –3. In fondo se non hai nessuna pera ne hai sempre di più di chi ha – una pera. Come si faccia ad avere – una pera, la cassiera della coop non ha saputo spiegarmelo.
Nonostante questo lo zero ha sempre avuto un’accezione negativa. A scuola simboleggia il peggior risultato conseguibile. Quando si vuole rimarcare un certo astio sommato al già umiliante voto, lo si corredava con l’aggettivo “spaccato”. Persino la storia ricorda gli zero, aerei usati dai giapponesi per schiantarsi carichi di bombe sulle navi americane, come simbolo dell’annullamento, della distruzione.
Ma da dove arriva sto numero decisamente troppo presuntuoso per rappresentare niente? Pare siano stati gli arabi ad introdurlo, scopiazzando però la numerazione posizionale agli indiani (non quelli d’america, quelli d’india, come i fichi). In realtà i Maya, già molti secoli prima, rappresentavano una posizione vuota con una conchiglia o una chiocciola, simboli ricollegabili, insieme alla spirale, alla rinascita e in qualche modo legati a un simbolismo uterino (sempre là si va a finire, pure con la matematica). Gli egizi invece non lo conoscevano (lo zero non l’utero), anche se qualche scriba lasciava uno spazio vuoto tra gli ideogrammi per indicare la mancanza (non dell’utero, di un valore numerico). Probabilmente perché questo antico e saggio popolo aveva qualcosa contro le figure tonde, forse avevano problemi di linea.
Lo zero vive oggi un periodo di nuovo fulgore, trovandosi a sostituire consunte locuzioni, esprimendo lo stesso concetto, ma in maniera molto più sexy. Per esempio, dopo che quelli che ne sanno di marketing hanno sentenziato che se si dice che una cosa è gratis il consumatore medio percepisce un infimo livello qualitativo del prodotto, la parola gratis è stata sostituita da zero spese. Anzi zerospese che è ancora più sexy. Che vantaggio di marketing ci sia nel rendere più accattivante una cosa che, in teoria, è comunque gratuita, non mi è dato capire.
Un apparato meccanico che non inquina si definisce zero emissioni. Se poi lo comprate in un centro commerciale globale potreste anche pagarlo in comode rate interessi zero. Vantaggio talmente eccitante da farvi snobbare tutti quei TAG TAEN scritti in corpo 3 (che è più grande di zero) in fondo al volantino fatto con carta zero cellulosa naturale (poi magari è fatta con midolli di cuccioli di foca).
Lo zero è il vero nuovo confine dell’immaginario collettivo. Una volta ti allettavano con grandi numeri. Facevano a gara a chi ti offriva di più. Compri un materasso? Io ti regalo una bici, un televisore, una macchina fotografica, un telescopio, una batteria di pentole, una da suonare e un criceto della Patagonia. Grazie, ma io avevo bisogno del materasso, se mi metto a pedalare, suonare, fotografare e cucinare criceti della Patagonia, quando cazzo dormo? Adesso è tutto il contrario: il miglior offerente è quello che ti toglie più complicazioni. Compri la mia macchina? Non dovrai pagare l’assicurazione, il bollo, niente tagliandi, pulizie, cambi gomme, insomma dovrai solo guidarla, ma tra un po’ ti levo anche 'sta seccatura. Una zeromacchina.
Ci sono troppe cose al mondo, ce ne saranno tipo più di cento e nessuno sa dare un senso a tutta questa moltitudine. Il niente è più facile da gestire e la gente è stanca. Il nichilismo trova così una forza e un senso tali da negare se stesso, donandosi così una nuova vita eccetera eccetera.
Nella lingua inglese ci sono tanti modi per “chiamare” lo zero. Il nome della cifra è “nought” (si pronuncia nout) oppure, in modo originale, “zero” (originale perché si pronuncia sziro), ma leggendo una sequenza di numeri, si usa “o” (si pronuncia o). Dando risultati sportivi viene usato anche “nil” (dal latino nihil, niente), tranne che nel tennis, dove si usa “love”. Sì proprio la stessa parola usata per chiamare l’amore (solo con la o chiusa, la o però è anche il simbolo dello zero, che per i Maya aveva una radice uterina, quindi la o chiusa di love… va beh lasciamo stare).
Nel dolce naufragar nel mare dello zero, mi sono arenato. Arenato zero.
In un momento di opacità mentale mi sono chiesto perché, una volta, tutti i numeri telefonici privati cominciavano con lo zero. Ho afferrato il cellulare, ho digitato 0, invio. Una voce ben modulata (tanto da non farmi capire se fosse maschile o femminile) si è rivolta a me come se stesse aspettando la mia chiamata.
“Io posso darti qualsiasi risposta, ma tu puoi farmi una sola domanda, quindi pensaci bene”
“Qual è la domanda più sensata che potrei farti?” Ho chiesto, senza riflettere un secondo.
Ho sentito un fragore di transistor, il tipico rumore di una rete neuronale che frigge (chissà quante volte l’avrete sentito) e sul display del mio telefono è apparsa una scritta: division by zero.

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martedì 7 novembre 2006

Appunti sulla patente a punti


Capita che per mettersi alla guida di un’automobile, allo scopo di rendere rapidi gli spostamenti e l’affermazione sociale, occorra un fogliaccio roseo, come una piccola gazzetta dello sport (probabilmente perché si ottiene con la stessa facilità con cui si spinge un edicolante a rilasciarci il quotidiano diportivo). Capitava che codesto fogliaccio, intitolato patente di guida, divenisse diritto acquisito e non più toccabile. Il ritiro della licenza di pilota cittadino, conseguita accostandosi a un marciapiede attivando l’indicatore di direzione corretto e scendendo dalla vettura senza far attraversare la portiera da un ciclista, avveniva solamente in casi di genocidio, alto tradimento e abigeato con scasso (contemporaneamente). L’unica incombenza, con scadenza decennale, era quella di presentarsi di fronte a un irreprensibile ufficiale medico il quale, se eri avvenente e di sesso contrapposto al suo, ti faceva spogliare, altrimenti ti diceva “quante sono queste?”. Il tutto contrastava con il dettaglio che l’imperizia al volante generasse un tasso di mortalità pari a quello di un paese produttore di petrolio.
La società costituita si è resa conto che educare giovani scapestrati che trasformano gli ormoni in chilometri orari, addestrare un branco di imbranati e impedire la circolazione a prepotenti incivili era compito assai complesso. Un’alternativa poteva essere quella di mettere in commercio solo automobiline da autoscontro che non superassero i 130 e si limitassero automaticamente nei tratti sottoposti a diversi obblighi. Questo avrebbe da un lato ridotto ai minimi termini gli effetti indesiderati dell’imperizia e della stupidità, ma dall’altro avrebbe insolentito le case costruttrici che si misurano su chi assembli il motore più sexy. Senza contare che un gran numero di repressi sessuali che sfrecciavano sulla loro stessa medicina, sarebbero finiti sul lettino di qualche medico della capoccia.
Le contromisure elaborate si sono quindi instradate su due percorsi ben definiti: imbottire le automobili di sistemi di sicurezza attivi e passivi e bastonare senza pietà i trasgressori delle regole arrivando financo a stracciargli la patente in faccia (quella vecchia, quella nuova la tagliano con le forbici). Il primo approccio è un’arma a doppio taglio: è vero che riduce i traumi da incidente, ma genera anche un senso di vaga invulnerabilità che spinge a osare più del dovuto. Tanto c’ho l’esp, al limite interviene l’abs, poi semmai mi esplodono in faccia una ventina di cuscini caricati a dinamite e il pretensionatore e l’ebd e il differenziale Ferguson e le sospensioni indipendenti e il sedile eiettabile… Se guidassi una due cavalli non ti verrebbe in mente di prendere allegramente nemmeno una manovra di parcheggio e non ti verrebbe in mente di fare da 0 a 100 in un tempo non avvertibile, se non lanciandoti da un ponte con tutta la macchina.
Il secondo approccio al problema ha portato, per enfasi, all’elaborazione di quel sadico giochino chiamato patente a punti. Concettualmente non sarebbe nemmeno questa bestialità che sembra, il problema è che il contesto in cui viene applicato, rende questo sistema un ottimo strumento per levare dalla strada la gente che sa guidare e ne ha bisogno, a favore degli inetti da gita.
Mi spiego. Gli automobilisti più capaci di stare in strada sono quelli che per lavoro o per diporto macinano valanghe di chilometri, tra autostrade, superstrade, stradine e mulattiere. Per esempio i rappresentanti i pendolari i camionisti ecc. E’ vero che spesso queste persone infrangono i limiti (a volte è una questione di sopravvivenza, per come è strutturata la rete stradale), ma hanno sviluppato una sorta di sesto senso che consente loro di capire che cosa sta accadendo un secondo prima degli altri. Magari corrono un po’, ma sanno come evitare e far evitare problemi. Infatti la maggior parte degli incidenti gravi accade ai neopatentati, ai gitanti della domenica o a gente che si mette al volante insieme a Glen Grant.
Consideriamo ora che il più prolifico mietitore di punti della patente è il fantomatico autovelox. Anche questo fatto può sembrare una cosa consona a risolvere il problema. Avventura vuole però, che questi accrocchi non vengano utilizzati in siti pericolosi, ma in posti assurdi e con l’unico scopo di tirar su due lire. Anche perché molti apparecchi fissi sono forniti da società private, che prendono una commissione sull’opera di ritrattura fotografica. Accade quindi di trovarsi in strade a 24 corsie, in discesa, senza una casa nel raggio di chilometri, in piena notte, di giovedì ed essere colti da un flash proveniente da un cartellino nascosto con scritto “limite 60”. Dopo aver scrutato il cielo nella speranza di scorgere qualche nube temporalesca o un ufo in fase di attacco, si cerca inutilmente di capire come quel limite tuteli la sicurezza stradale.
Ora, in queste vere e proprie trappole chi ha più probabilità di caderci? Chi passa più tempo in strada ovviamente, quindi quelli generalmente più capaci di guidare. Sembrerà assurdo, ma è molto più facile che uno che fa 50mila chilometri l’anno non abbia mai avuto incidenti, mentre chi usa la macchina solo per andare in ferie (non sapendo come si utilizzi un’autostrada) o per andare a fare la spesa, molto probabilmente potrà raccontarvi qualche storia di mezzi accartocciati.
Gli utenti della strada più impacciati, che magari vanno sempre a 100 all’ora, anche in autostrada e sulla corsia di sorpasso, hanno una pericolosità intrinseca molto più elevata, ma hanno la probabilità di veder calare i punti premio della patente davvero molto scarsa.
Pochi sanno per esempio che stare in mezzo alle corsie senza utilizzare quella libera più a destra, comporta il defalcamento di due punti, ma se quei poveracci dell’autostradale dovessero fermare tutti quelli che guidano così, si creerebbero degli ingorghi paurosi.
Risultato: gli automobilisti inetti non solo rimangono liberi di fare danni, ma ci fanno pure la figura del pilota modello, mentre chi sa come stare in strada vive in una giungla di agguati fotografici senza senso e timore di non poter lavorare.
Io mi chiedo una cosa. In Italia accadono una marea di incidenti (anche con la patente a punti), invece di fare i giochini non si può prendere chi provoca un incidente e strappargli un pezzo di patente e la volta dopo strappargliela tutta? Piano piano quelli che fanno danni diventeranno sempre meno. Tanto non ci sono punti che tengano, finchè è permesso a dei decerebrati di deambulare su mostri a quattro ruote continuerà a morire tantissima gente, nel modo più insopportabile: per mano della stupidità.

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domenica 5 novembre 2006

Ausonio & Esperio #4






















Soggetto e sceneggiatura: Cruman
Grafica digitale e rendering: Bubi

venerdì 3 novembre 2006

Il supplizio degli innocenti


C’è stato un periodo, un periodo scudocrociato, in cui gli uomini di sinistra, che all’epoca si intitolavano comunisti, erano convinti che i ricchi fossero colpevoli, intrinsecamente colpevoli e i loro sozzi denari erano la prova della loro reità. Nella grande madre Russia, genitrice ideale di tutti i comunisti, i colpevoli venivano mandati in Siberia, in posti da cui non si poteva scappare. Non perché ben protetti, ma perché se provavi a mettere il naso fuori a ferragosto ti si ghiacciava pure la voce per dire vaffanculo che freddo.
Oggi in Italia, ma non solo, gli uomini di sinistra, che non si intitolano più comunisti, forse per rispetto a quegli altri, non hanno più le idee chiare su chi sia colpevole e sembra quasi che vogliano godere di quel capitalismo edonistico che è sempre stato negato loro, per appartenenza, per idealismo, per tenere alto quel pugno chiuso, incazzato e bella ciao. In fondo, è vero, il comunismo ha fallito, ma non è che il capitalismo abbia avuto tutto sto successo.
Ora la sinistra al potere si siede intorno a un tavolo e parla ovviamente di soldi, perché è di quello che c’è bisogno, i pugni chiusi vanno bene all’opposizione, quando si protesta, quando c’è un nemico. Adesso servono i soldi, adesso il nemico non esiste o peggio i nemici sono loro stessi. E dove si prendono i soldi? La risposta viscerale è un coro rosso e proletario: AI RICCHI! Che entusiasmo, che emozione impagabile poterlo finalmente fare senza espropri e rivoluzioni. Bene, che si innalzi come una barricata l’irpef fino al 45% per chi guadagna più di 150 mila euri all’anno. Bonolis dice che 150 mila euri sono 300 milioni del vecchio conio, praticamente 20 volte quello che guadagna un operaio e l’operaio è la spina dorsale dell’elettorato. Ma a qualcuno, una volta scemata l’enfasi falcemartellata, appare come una madonna il proprio setteequaranta e comincia a guardarsi intorno, a cercare lo sguardo dei compagni….. ma tu quanto guadagni?…. Mah non so, ‘na mjardata. Va beh lasciamo stare sta cosa dell’irpef che poi le percentuali sono complicate e la gente non le capiscono! Ma a voi non stanno sulle palle quei macchinoni in città?
Deve essere partita così l’odissea dei SUV. Un’odissea fatta di numeri, cavalli, misure, pesi, costi e domande sussurrate…ma che accidenti è un suvo?? Ok lasciamo perdere pure sti SUV che tanto si fa solo confusione e ci si guadagna poco, senza contare che lunedì mi consegnano il nuovo H2 5500 a uranio poveraccio e devo andare all’ufficio postale col bollettino del bollo. Facciamo gli ecologisti che va tanto di moda e fa verde arcobaleno: tassiamo quelli che non hanno l’euro 4 e impuzzoliscono l’aria, che si tirano su bei soldi e nessuno può dirci niente perché salvaguardiamo l’ambiente.
Il risultato è pressappoco quello che i poveracci che non hanno 20 mila euri per comprarsi la macchina nuova nuova con motore euro 4 (che però è turbo multijet con le lamelle aerodinamiche quindi va più forte e inquina come quella vecchia), dovranno pagare più tasse, avranno ancora meno soldi e la vettura antinquinamento non se la compreranno mai. Mentre il ricco, che una volta era un colpevole, si compra l’audi Q7 12 cilindri contrapposti che consuma come un boeing ma è euro 4 quindi niente aumento del bollo.
Sembrerebbe che per la nuova sinistra, il colpevole è chi non riesce ad avere abbastanza soldi per vivere come un ricco e fare le vacanze con Briatore. Sticazzi.
Forse però i veri colpevoli, quelli che commettono reati, vengono puniti e i deboli tutelati e protetti. Me sa de no. Già in Italia c’è la cultura del colpevole. Il criminale fa avventura, fa antieroe, fa ascolto. Maurizio Costanzo Show ci parla dei sogni, dei desideri, delle speranze dei carcerati. Le loro vittime non fanno ascolto e vedere la gente piangere, sì fa tenerezza, ma ormai c’è troppa gente che chiosa “che palle questi che piangono in televisione”. Lo stato paga piani di reinserimento, assistenti sociali, psicologi, crea programmi speciali….tutto per i colpevoli. Per le vittime, bene che vada si può piazzare un politico di fronte a una bara. Non basta? No non basta, facciamo anche un indulto e tutti a casa.
Dalle mie parti c’è una famiglia devastata per sempre da un evento che non fa notizia perché ormai si è visto tante volte nei film e c’è tanta gente che considera eroi i personaggi di arancia meccanica. Questa famiglia è stata aggredita da un branco di bestie in casa propria. Il padre picchiato a sangue, la madre stuprata a turno da sei uomini, il tutto davanti ai bimbi. I poliziotti, che guadagnano come un operaio, hanno arrestato tutti e sei i componenti della mandria, con l’aiuto delle vittime nonostante fossero state minacciate di morte in caso di denuncia. E’ passato meno di un anno e quattro su sei sono a passeggio, grazie a burocrati dalle tasche piene. Per questa famiglia non c’è piano di reinserimento, non c’è assistenza (anche perché sfido chiunque a superare una cosa del genere), non c’è un programma speciale per una donna senza più vita e dei bambini segnati per sempre. Non c’è qualcuno che li protegge ora che la loro vita è oscurata dall’incubo del ritorno di queste bestie per vendicarsi secondo il loro codice di bestie. Loro dovranno arrangiarsi, le bestie hanno avuto tutte le agevolazioni che la nuova sinistra e un sistema indirizzato sempre a capire il carnefice e abbandonare le vittime, hanno concesso loro.
Questo sistema è quello che porta le trasmissioni televisive a litigarsi la presenza del criminale di turno, che porta Moggi a fare la voce grossa, a pretendere giustizia e rispetto, dopo aver fatto i propri comodi per anni. E noi lo ascoltiamo, i giornalisti che fino a qualche giorno prima chiedevano la gogna, calano le braghe e offrono le loro grazie al cattivone potente. Così quando ingenuamente un avvocato della juventus dice che, prove alla mano, la società poteva finire in serie c, gli organi di stampa definiscono questa dichiarazione una gaffe e ricominciano la litania degli sconti per tutti.
Che questo governo di sinistra ci tenga a garantire dignità anche a chi ha sbagliato è evidente e, da un certo punto di vista anche giusto (e l’ha dimostrato donando degli sgabelli in parlamento ad un discreto numero di ex galeotti), ma pare proprio che per trovare qualcuno che si preoccupi di chi ha commesso lo sbaglio di trovarsi sulla strada di animali senza pietà o di dar retta ai consigli finanziari di fidati consulenti bancari (esempi equipollenti), toccherà attendere ancora un pezzo oppure adeguarsi e diventare tutti carnefici. Il tutto è amplificato dalla cultura dell’italiano che giustifica ogni cosa nella speranza che gli altri facciano lo stesso con lui.
E’ evidente che si tratti di un problema culturale prima che politico. Bello il programma di Maurizio Costanzo Show, però finchè in Italia non si penserà a tutelare le vittime almeno quanto si tutelano i colpevoli, io vorrei vedere certa gente, se non proprio presa a calci nel culo, almeno non trasformata in personaggi che trovano, nei fertili campi coltivati a idioti, sostenitori che li incitano pure ad alzare la voce.

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giovedì 2 novembre 2006

L'amico arretrato


Non ho mai capito perché tutte le storielle che hanno a che fare con l’informatica debbano sempre necessariamente cominciare con “C’erano una volta le schede perforate”. Visto che ci piace essere originali, qui la storiella comincia svariati anni più avanti, quando già c’erano i newsgroup (ovvero gli antenati dei moderni forum) e Bill Gates aveva già comprato il suo terzo yacht. Un bel dì, cazzeggiando come ogni studente universitario che si rispetti sa fare, cozzai in uno scritto (il cui autore rimane ahimè ignoto ma che meriterebbe menzione) che svelava senza falsi pudori lo stato di repressione psichica in cui versano tutti quelli che cercano di stare al passo con l’evoluzione informatica e contemporaneamente sono costretti a misurare i propri risultati con quelli di un amico molto più aggiornato. Il titolo era l’amico aggiornato e lo svolgimento lo potete trovare qui.
Orbene, la questione più illuminante sollevata da questo pezzo sta proprio nell’ipotesi di essere sempre l’amico aggiornato di qualcuno. Quello che cercherò di fare è dimostrare che questa possibilità non può renderci fieri perché essere l’amico aggiornato di qualcuno non ha solo vantaggi ma anche tanti, tanti lati negativi. Tanti quanti sono gli amici meno aggiornati di voi. I meno invasivi solitamente vi contattano timidamente con un sms che recita qualcosa del tipo “ho il pc che fa le bizze, quand’è che riesci a fare un salto per vedere cos’ha?”, al quale si risponde convenzionalmente con “le prossime otto settimane sono in Groenlandia per lavoro, se non hai fretta lo guardiamo al mio ritorno. Ricordamelo” (l’ultimo termine, necessario evidentemente a scaricare la coscienza, è forse più importante di tutto il resto del messaggio). Fermo restando che la tenacia dell’amico arretrato - lo chiameremo così - è inversamente proporzionale alla beltà della di lui sorella (forse l’unico motivo per cui l’aggiornato frequenta la magione dell’arretrato), prima o poi succede il fattaccio e in un funesto sabato pomeriggio si allineano i pianeti e convivono sotto lo stesso tetto l’amico aggiornato, quello arretrato e dieci chili scarsi di tecnologie obsolete.
L’aggiornato si presenta all’appuntamento con una cartucciera caricata a cd di installazione e porta nelle fondine ogni attrezzo che gli possa essere di supporto all’operazione a cuore aperto che si appresta a compiere, dalle chiavette usb alle tenaglie da dentista. Ma l’entusiasmo e lo slancio che lo contraddistinguono svaniscono solitamente già dopo i primi 15 minuti, passati a cercare di estorcere all’amico arretrato la posizione di tutti gli importantissimi documenti che egli desidererebbe salvare prima della inevitabile et purificatrice formattazione. Sondate millequattrocento cartelle il bottino è costituito da centoventi emmepitre di cartoni animati giapponesi, due mozziconi di una tesina di geografia del fratellino e quattro pornazzi cecoslovacchi di pregevole fattura. Il tutto, ovviamente, da riversare in qualche modo - direttamente, indirettamente o di sponda – su una qualsiasi periferica di archiviazione di massa. Ovvio che tutte quelle a bordo del pc siano inservibili: masterizzatore di cd (mancato all’affetto dei propri cari per motivi imprecisati ma comunque legati alla polvere); periferica usb a scelta (porte non accessibili a causa di mostruosi e imprecisati conflitti software con una fantomatica “periferica di controllo supporto”); disco fisso (pieno fino all’orlo nonché dilaniato da orde di virus mutanti); scheda di rete (“dovrei forse averne una?”); porta seriale (chissà se ho ancora laplink da qualche parte). Cercando di ignorare improbabili e illuminanti contributi del tipo “non puoi mandarti tutto per email?” (quattrogiga e passa?) le ore passano veloci e a notte ormai inoltrata la titanica impresa di dare una sembianza di funzionalità a un rudere è portata eroicamente a termine. Inutile dire che l’amico aggiornato non godrà mai, per ciò che ha fatto, di riconoscenza e favori sessuali; si porterà bensì appresso il pesante fardello di continue telefonate dell’ormai ex-amico pronto a rinfacciare che da quando il pc è stato “sistemato” non riesce più a scaricare la posta/far funzionare lo scanner/collegarsi a internet mentre “primaandavatutto”. Inutile precisare che ogni motivazione, per quanto valida, fornita dall’amico aggiornato venga immediatamente catalogata come futile scusa da parte dell’arretrato e questo contribuisca a demolire la reputazione dell’ex “guru” che si ritrova così con la canonica beffa oltre al danno.
La prossima volta che vedete un ragazzo un po’ scontroso e con la faccia da secchione, con la pelle del colore della luce al neon e di cui la gente non sa niente se non che è uno che “lavora con i computer”, beh, non chiedetevi come mai non trova nuovi amici ma piuttosto come ha fatto a perderli tutti: molto probabilmente era l’amico aggiornato di qualcuno... prima di sistemargli il pc.

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