venerdì 28 luglio 2006

Post scriptum


Io non so scrivere e questo incipit dovrebbe essere sufficiente a dimostrare se stesso. Scrivere non è un concetto così definito come potrebbe sembrare: troppi fattori vanno a comporre uno dei gesti più antichi del mondo, dopo l’omicidio e il mercimonio corporale. Bisogna considerare i destinatari (se ci sono) dello scritto e il tipo di rapporto che lo scrivente ha con loro (sempre e solo se ci sono), i limiti contestuali e linguistici, l’argomento e persino lo strumento utilizzato e il supporto che accoglierà il messaggio. Con un quaderno in mano e armati di lapis, non è difficile buttare giù parole, segni, fiorellini o incisioni rupestri. Ma con una cartolina capovolta davanti al naso si finisce spesso con la penna incastrata tra un incisivo e un premolare, con l’espressione della mucca che guarda il treno e la sensazione di avere un mocho vileda al posto del cervello. Dopo circa quarantacinque minuti, anche un nobel per la letteratura scriverà “saluti da pinarella di cervia. Giacoma e Tereso (nobel per la letteratura)”. Accorgendosi poi, nell’atto liberatorio dell’imbucamento, che sulla parte illustrata della cartolina campeggia la stessa identica frase, il che è curioso, considerando che vi trovate a carini di licata.
La mia incapacità grafocreativa a cui accennavo è quindi riferita al contesto che voi lettori, impegnati a non far capire ai vostri colleghi che state usando internet per leggere un blog invece di scandagliare siti porno e scaricare musica che non ascolterete mai, conoscete bene: il mondo dei postatori cibernetici. Questo malnato giudizio mi arriva diretto come un 18 sul libretto, nientepopò di meno (cioè esattamente il numero di popò che vedete) dalla reggente la cattedra di lettere moderne dell’università Secondo Federico di Napoli. Lettere moderne è quel corso di laurea che può tranquillamente sfociare in una tesi sull’uso del sospensorio nel balletto classico russo. Non deve quindi stupirvi che si discetti di blog o della valenza sociale della quadriglia. La docente, secondo gli appunti presi da una mia giovane amica, sostiene, anzi insegna (in quanto illuminante, quindi insegna al neon), che per assemblare a dovere un perfetto post in un blog che pretenda un numero di accessi pari a quello di studentessesbadatedimenticanolabiancheria.com, occorra essere concisi, diretti, parchi di aggettivi e di facile fruizione.
Il fatto che io abbia impiegato mezza pagina per dire “sono prolisso e complicato”, potrebbe insinuare il sospetto che se avessi frequentato quell’ateneo, non avrei passato un esame nemmeno presentandomi con gonna inguinale e calze a rete (atte a irretire) e io ho delle belle gambe! Nemmeno posso smentire l’oculata professoressa, avendo registrato nel mio sito, il passaggio a pelo d’acqua di un numero di navigatori appena inferiore a quello di bruttemaappiccicose.it.
Eppure qualche dubbio mi rimane. L’estrema sintesi coincide con l’interesse suscitato? Un messaggio scarno e sfronzolato (esse privativa) può favorire la quantità di destinatari, ma non ne pregiudica la qualità (non del messaggio, dei destinatari)? E soprattutto, la riga delle calze è storta?
Stringendo, è possibile che nei miei post io non comunichi gran ché, però mi sollazzo nel pensiero che il mio stile è riconoscibile, che chi torna, torna per il modo in cui affastello le parole una sull’altra, non perché è d’accordo con quello che dico o perché rivelo notizie in esclusiva. Certo se avessi le prove del complotto Kennedy, se sapessi perché Iaquinta gioca in nazionale o potessi dimostrare che dopo la morte c’è un campo da golf a 18 buche, probabilmente io potere scrivere anche con verbi a infinito e senza articoli che gente leggere mio blog uguale. Ma le cose che conosco io sono più o meno alla portata di tutti e la mia vita non è molto diversa da quella delle altre persone e anche se lo fosse sarebbero affari miei. Che cosa rimane da dire? Poco in realtà, ecco perché è tanto importante come dirlo, ecco perché con un po’ di originalità, qualcosa degna di nota, si riesce a trasmettere (mica come la rai) e soprattutto se non scrivessi così, perderei la fonte stessa della mia creatività, la spinta decisiva verso il foglio elettronico con tutti i bit a zero, cioè il fatto di ridere come un debosciato mentre scrivo. Poi non importa se qualcuno non coglie un acrobatico calambour, un’azzardata capriola linguistica o un sottointeso inteso troppo sotto. Si vede che non era per lui che stavo scrivendo quel pezzo.
Quindi non voglio imparare a scrivere. Anche perché è impossibile: possono insegnarvi la grammatica, possono istruirvi a scrivere lettere commerciali, a fare il giornalista di cronaca, ma un corso di scrittura creativa ha senso come un corso di alta statura o un corso di Picasso.
Se una cosa la dite bene o in un modo originale, può anche non esserci la cosa, tanto coserà lo stesso. E’ come quando ascolti la Unzicher parlare, magari emette solo ridolini e banalità, ma se ti giungono da quell’armonioso groviglio di tette e culi, ti sembra di ascoltare Heidegger che parla del cinquecentesimo anniversario della fondazione dell'università di Freiburg (che naturalmente è bello e ciò che è bello è sano, come postatore).
Ecco, diciamo che io scrivo con le tette di fuori. Con buona pace della nomenklatura accademica partenopea (lì la k ci vuole, non sto facendo il punkabbestia).

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mercoledì 26 luglio 2006

Calcio di non punizione


Signori abbiamo esagerato. Sì, tutta quella storia di un calcio malato, figlio di interessi economici e pronipote di sua maestà Moggi (padre del famoso procuratore) è stata un po’ gonfiata, ma non tanto, non più delle tette delle veline insomma. L’estate si prospettava calda e noiosa, i bar dello sport vuoti come una biblioteca e i giornalisti sportivi stavano correndo seriamente il rischio di dover parlare di sport assurdi come la pallavolo, la pallacanestro e l’atletica. Certo la situazione poi è sfuggita leggermente di mano, ma se si escludono picchi di esaltazione giustizialista durante i quali si è urlato alla pena di morte, le cose sono scivolate via come un tekel sull’erba bagnata. Ora lo possiamo dire: nessuno ha fatto niente. Niente illeciti, truffe, magheggi, fenomeni di transustansazione di cittadinanza o arditi esperimenti di escapismo finanziario. Del resto è sotto i vostri occhi. L’indignazione degli accusati è lo specchio dell’innocenza. Come potrebbero altrimenti personaggi ritenuti colpevoli di aver manipolato acrobaticamente soldi ed eventi sportivi per anni, alzare tanto la voce e scomodare tribunali, camere di conciliazione, tar, bar e compagnia cantando, per qualche punticello di penalità? Se ne sono convinti anche i giornalisti del nuovo giorno, quelli che avevano preparato la vergine di ferro e che adesso bacchettano Guido Rossi & co. “eh eh bricconcelli, siete stati dei cattivoni”. E se queste società calcistiche si lamentano devono per forza avere le loro ragioni. Non si sono mai lamentate prima. Non hanno fiatato quando non sono state commissariate nonostante una gestione imprenditoriale da spaccalegna e dei buchi nel bilancio simili a depressioni carsiche. Nemmeno uno sbuffo quando hanno avuto sconti da liquidazione sui miliardi di debiti con lo stato (cioè con noi). E un dignitoso silenzio in occasione della dilazione della restituzione del maltolto nel corrispettivo di un’era geologica. Quindi se ora sbottano un tantino, devono necessariamente essere dalla parte del giusto. Che pretendi tu, pulcioso imprenditorucolo che mantieni a stento qualche famiglia di disperati? Non puoi insolentirti se per un ritardo di sessanta giorni sul pagamento di una tassa ti sei ritrovato in azienda un tizio vestito come Totò ne la patente, che ti ha pignorato anche i gemelli (non quelli della camicia, proprio i tuoi fratelli che lavorano con te). Non avercela a male se ti hanno chiuso l’attività perché la porta del bagno delle donne non chiudeva bene o perchè quel cerebroesente del tuo responsabile della privacy, dopo cinque cambi di password mensili previsti dalla legge, ha smesso di aggiornarla perché non conosceva altre parole. Lo stato non ha tempo da perdere con i tuoi problemucci. Sì lo so che la piccola impresa è la spina dorsale della produzione italiana, ma tu mica dai piacere a milioni di scalmanati. Non consenti a un sufficiente numero di persone di insultarsi, malmenarsi e sputazzarsi ogni domenica usando come teatro le più belle città italiane. E soprattutto se ti sprango l’azienda non mi devasti l’arredamento urbano (non lo fai vero?).
Insomma lo dico anche per Preziosi, presidente del Genoa calcio, che si è una punta inalberato perché è ruzzolato per due rampe di categorie perché un suo dirigente pare avesse intenzione di acquistare una partita in vendita. Finito in C senza nemmeno passare dal via, dopo il processo più veloce che la storia della giustizia italiana ricordi. Niente sconti, niente sommosse. Per una partita. Non anni di magheggi, una partita. Preziosi caro, non te la prendere, la prossima volta fai il presidente di una squadra più importante oppure prendi tutti i tuoi tifosi e li fai addestrare dai mujaedin. Un po’ di lungimiranza, un minimo di visione imprenditoriale di ampio respiro ecchediamine.
Io non voglio buttare tutto a tarallucci e vino come al solito, ma soffermatevi sugli incredibili vantaggi socio economici che questa vicenda ha portato al paese:
Abbiamo tenuto Borrelli lontano da faccende vere per un bel po’ di tempo.
Risollevato la crisi dell’editoria sportiva.
Spillato una discreta quantità di euri per la federazione le cui casse erano state prosciugate dai buoni pasto per il billionaire.
Reso il campionato prossimo molto più interessante.
Rinvigorita la spinta verso i bar dello sport dell’italiano medio, con buona pace della brioche luisona che giace immangiata in bacheca, dai tempi dello scudetto della Pro Vercelli.
Ripristinato uno scoppiettante calciomercato che non si vedeva dai tempi di Bruscolotti e Frustalupi.
E non ultimo, forse siamo riusciti a far vincere uno scudetto all’inter.

Ho detto non ultimo, quindi dovrei dire qualcos’altro, ma non mi viene in mente niente. Mi raccomando amici sportivi, adesso mettetevi buonini che tutto si sistema, come sempre.

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martedì 25 luglio 2006

Illuminismo cosmico

Quella notte Stefano guardò il cielo prima di mettersi a letto. Lui, abituato a controllare la più potente energia conosciuta, si sentì poco più di un piccolo fiammiferaio, per un breve istante che gli serpeggiò lungo la schiena. L’istituto nazionale di fisica nucleare gli aveva concesso un permesso per studiare, per conto del cicap, quel bizzarro fenomeno dei cerchi di luce che, da qualche tempo, si manifestava in diverse parti del mondo. Il cicap non scherza su queste cose: sguinzaglia i suoi scientisti come fossero snauzer e li manda ad azzannare, qualsiasi velleità metafisica non autorizzata. Stefano fece il suo lavoro, pulito, veloce, come un aspirabriciole. Si addormentò pensando ai buffi complottisti, ufologi, satanisti e compagnia bella, tutti rifugiati nel mondo dell’ignoto per non sapere nulla dei riflessi di uno specchio concavo con una notevole lunghezza focale. “Proprio non vogliono riflettere”, pensò, e abbandonò la veglia, gonfio del suo calambour.
A ripescarlo dal sonno dei giusti non fu però la sua sveglia satellitare alimentata a barrette di uranio reso povero, ma un suono continuo fastidioso, molto simile a un comizio della Iervolino. Ciò che vide di fronte al suo letto non è facile da descrivere. Un tronco di cono blu lo fissava tramite occhi multipupilla disseminati su una sorta di palla da rugby appoggiata sulla base superiore del cono. Dal corpo si distendevano sei braccia piuttosto corte terminanti in altrettante manine apparentemente sottodimensionate. Di fronte a lui una sorta di jo-jo luminoso fluttuava privo di qualsiasi sostegno. Proprio da quell’oggetto sembrava provenire il fastidioso suono che svegliò lo scienziato. Stefano era sicuro di non sognare, perché avvertiva il solito dolore mattutino al piede destro, su cui anni fa fece inavvertitamente cadere uno ione positivo eccitato. Assalito da terrore e incredulità, riuscì finalmente ad articolare un messaggio:
“Vattene mostro!!”
“Ha parlato Raoul Bova” rispose il cono rovesciato con un tono più da commesso di un supermarket che da extraterrestre di una galassia lontana. E aggiunse:
“Prova tu a viaggiare per un milione di parsec su una scomodissima nave a propulsione conica senza incontrare uno straccio di autogrill e mantenere un aspetto gradevole. Ho quattro braccia indolenzite e la fubosacca gonfia come una zampogna”
“La fuboche? No non voglio saperlo. Ma che cosa vuoi da me?”
“Tu sei lo scienziato che ha spiegato come i cerchi luminosi siano frutto di una deformazione termica di 6mm su lastre di vetro generanti una lunghezza focale di oltre 40 metri?”
“Sì sono io”
Il visitatore colpì Stefano al volto, allungando all’inverosimile le braccia e generando nello scienziato l’impressione di venire schiaffeggiato da sei bambini teppisti.
“Ehi, sei impazzito?” Protestò il terrestre.
“Da noi questo è segno di rispetto intellettuale e amicizia”
“Chissà che fate quando vi odiate allora”
“Da noi non c’è odio, al limite un discreto starci sulla fubosacca”
“Insomma perché sei qui?”
“Tu sei convinto che la tua dimostrazione scientifica spieghi il fenomeno delle luci?”
“No, ma l’ho anche detto: va verificata, ricontrollati i calcoli, ho detto che forse questo spiegherebbe quei cerchi luminosi”
“Quindi è una normale ipotesi. E quegli accannati che sostengono si tratti di messaggi alieni, possono dimostrare la loro teoria?”
“No direi di no”
“Quindi perché la tua ipotesi dovrebbe valere più della loro?”
“Che diavolo c’entra? Io sono uno scienziato, applico le leggi fisiche, mica straparlo di leggende da film di quart’ordine”
Il cono colpì di nuovo lo scienziato.
“Stai esagerando con queste dimostrazioni d’affetto”
“No questo era un ceffone terrestre, mi sto inserendo culturalmente nel contesto sociale”
“Impari troppo in fretta per i miei gusti. Insomma vuoi dire che quelle luci sono opera tua?”
“Non proprio, è mia moglie che mi sta cercando”
“Tutto l’universo è paese eh?”
“Già. Vedi, voi siete una specie ancora molto involuta e anche bruttarella se mi permetti” Una cucitura della palla da rugby si aprì in una sorta di sorriso. “Avete ancora molto da imparare, non potete limitarvi a considerare le vostre scoperte come il punto più alto della ricerca scientifica. Esistono strade diverse, alcune di quelle che avete preso sono sbagliate, insomma non arrotolatevi sulla vostra presunzione”
“Ma tu come fai a dire questo? A che livello evolutivo siete arrivati?”
“Ah noi abbiamo consapevolezza di tutto ciò che è conicamente conoscibile”
“Ah ecco, appunto, come noi insomma. Se mi dai altri sei schiaffetti ti faccio in sezioni ellittiche!”
Il visitatore ritrasse i sei arti superiori e continuò.
“Il messaggio che ti porto è di guardare oltre i vostri successi. Mantenere una mente aperta e possibilista. Non arroccatevi nelle vostre posizioni, reinventatevi, prendete esempio da mike buongiorno
“Prendete mediaset?”
“Solo col decoder”
“Bene, farò tesoro dei tuoi consigli, te lo prometto”
“Un’ultima cosa….importante. Se incontri un tronco di cono rosa di dodici metri…tu non mi hai visto, mi raccomando, io mi beccherei un numero sbalorditivo di ceffoni, ma voi rischiate di essere decomposti con un peto”
“Tranquillo, ti assicuro che rimuoverò questa esperienza dalla mia memoria”
Il visitatore si allontanò con movimenti rapidi e ondivaghi.
“Ehi” gridò Stefano. “Portati via il tuo dannato jo-jervolino”
“Ah non è tuo?” Rispose l’alieno “io l’ho trovato lì quando sono arrivato” e sparve.
Lo scienziato considerò con perizia l’oggetto levitante, elaborò ipotesi e dimostrazioni. Poi prese una mazzetta da carpentiere, lo frantumò con un colpo scientificamente preciso e tornò a dormire.

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lunedì 24 luglio 2006

Una coscienza sinistra


In tempi non sospetti (sempre ne esistano ancora), ho espresso qualche dubbio sul tasso di sinistraggine che la classe dirigente unionista potesse esprimere, messo in guardia anche dalla buffa esperienza del governo D’Alema (questo è il post scritto in tempi insospettabili http://celodicehillman.blogspot.com/2006/04/le-lezioni-politiche.html lo so non è bello citarsi, ma mi scappava e rischiavo di citarmi addosso). Ammetto che non era una previsione difficilissima. Che Nostradamus e Otelma mi direbbero “e grazie al c…” e che in fondo… Romano….Prodi…vi viene in mente un nome più di destra?.
D’accordo, capisco che il governo non abbia esattamente una maggioranza schiacciante e che qualche compromesso diversamente comunista, sia costretto ad accettarlo. Ma che ora gigio prodigio trovi tutto questo anche sexy mi sembra raccapricciante. Non in senso politico, proprio di pelle. Come le unghie sulla lavagna, i palloncini strizzati, l’amico che fa scrocchiare i denti, il turista in costume al supermercato…ok la pianto. Insomma se mi avessero parlato di deviazioni sessuali di Berlusconi non mi avrebbe fatto molto effetto, del resto una cosetta a tre col primo ministro danese…. Ma il mortadella no, è come scoprire che il tuo parroco è pedofilo. Raccapriccio e fastidio.
Questa curiosa compagine parlamentare sta superando in anticomunismo, le alte vette raggiunte dal governo di fine anni novanta, nato da una costola rotta di Bossi e fa arrossire di invidia persino la Mussolini, che starà pensando “hai visto quel fagiolone di Pannella come ci ha visto lungo”. Ma come accidenti fa un sano uomo di sinistra ad ascoltare i ministri che ha votato, mentre parlano di privatizzazioni? Le privatizzazioni sono quelle operazioni che consistono nel sottrarre un bene collettivo (per esempio i trasporti, le poste, l’energia, michel unzicher) per venderlo a uno o più tizi che si spartiscono i proventi. Da qui il termine proprietà privata, cioè ogni persona viene privata della proprietà.
Altro atteggiamento diversamente comunista è l’indignazione di fronte all’esercizio della libertà di astensione dal lavoro, altrimenti noto come sciopero. Strumento di lotta proletaria vicino agli ambienti di sinistra (incidentalmente incoraggiato durante i nefasti periodi di governo di destra). Pacatamente di sinistra è invece la bonaria accondiscendenza verso le richieste dei lavoratori in sommossa, tanto da far giubilare al grande pareggio dopo la contrattazione con i tassisti, rendendo il ministero per l’attuazione del programma un allegro teatrino (che comunque garantisce diversi posti di lavoro). Questo mi fa tornare alla mente un episodio della mia vita militaresca. Ci adoperavamo per mantenere l’ordine pubblico tra migliaia di riottosi ultras dal profilo umanitario basso e dal tasso alcolico no, durante lo svolgersi di una tenzone calcistica. Frattanto, una curva espose uno striscione dai toni vagamente razzisti, violenti e, per colmo di inumanità, sgrammaticati. Il nostro tenente, tenente poca paura (il participio è una gran cosa), ci chiamò a raccolta (tutti e 10) e ci spinse di buon grado (quello di tenente appunto) ad infilarci sorridenti in mezzo a tremila energumeni famosi per il loro sostegno all’Arma, allo scopo di privarli della loro espressione comunicativa. Il nostro superiore ci fece lasciare carabine, caschi ed altre cosucce utili all’uopo, perché, disse, temeva di innervosirli. Non che noi fossimo una maschera di serenità. Giunti in curva, noi 10 temerari chiedemmo con decisione la rimozione dello scritto ingiurioso. Io non sono mai stato un tipo da acclamazioni popolari, ma tremila persone che mi ridono in faccia non le avevo mai viste. Il tenente contrattò. Lo striscione rimase lì, ma ne portammo via un altro. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere cosa ci fosse scritto, ma mi parse di scorgere un “ciao ma” nell’involto che trasportammo via. Fu per il tenente, un dignitoso pareggio. Il mio orgoglio alamarato ne soffrì, ma le mie ossa ringraziarono sentitamente.
Lasciando i nostri prodi e tornando ai loro, ho trovato esilarante la questione indulto. Che Berlusconi elaborasse leggi ad uso personale è poco carino, ma inquadrabile in una logica di espressione di potere, ma che lo faccia Prodi no (non ad uso personale, ad uso di Berlusconi!). Un governo di sinistra che per liberare le carceri ad equocanone, chiude un occhio su reati di falso in bilancio. Reati che hanno significato la rovina per tantissime famiglie di proletari! Va bene essere di sinistra senza avere una coscienza di sinistra, ma non avercela per niente è un altro paio di manicaretti. Non è ovviamente questa la cosa esilarante. Desta ilarità lo sdegno del robin hood casereccio: Di Pietro minaccia dimissioni (nell’indifferenza generale) se l’indulto dovesse aprire anche le celle dei truffatori finanziari. E’ curioso come al verace ministro sia sfuggito che è sufficiente si guardi un po’ intorno, lì nel suo affollato luogo di lavoro, per riconoscere tra i suoi colleghi, personcine a modo con condanne per sciocchezze di gioventù quali banda armata, concorso in omicidio e compagnia bella. Lui sarà onestamente indignato per il colpo di spugna sui reati che tanta fama gli hanno dato, ma coi colpi di spugna che prendono stipendi da favola in parlamento, Ercole ci avrebbe lavato stalle per un’intera vita da semidio.

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venerdì 21 luglio 2006

Un taglio al passato (CLDH: parte treditre)


Postatore Sano non ha mai creato problemi a nessuno. Nemmeno alla nascita. Fu un parto così tranquillo che la madre gli disse: “Nasci da solo, io ti aspetto nella saletta fumatori”. I genitori poi, non se la sentirono di contraddire l’ostetrico che dichiarò: “È sano”. E così fu nominato.
La famiglia Postatore emigrò in Australia, poco dopo la nascita di Sano, a causa delle disagevoli condizioni di vita. All’età di otto anni, mentre scavava con le mani nelle miniere di opale di Coober Pedy, il bimbo si chiese, con umiltà, che razza di vita facesse la sua famiglia in Italia.
Ma Sano era coscienzioso, ragionevole e con una quantità di pazienza tale che si faceva fatica a capire come facesse ad albergare tutta in un corpicino così minuto. Aveva occhi talmente brillanti che incutevano soggezione financo a rudi e lerci minatori. Tanto lucenti che un paio di volte, nel buio dei cunicoli, prese anche delle picconate in fronte da colleghi in preda a febbre da opale. Ma Sano non protestava mai. Capiva, imparava, portava pazienza e sognava. Sapeva che il suo mondo non si trovava nella polvere del sottosuolo, tra cariche di dinamite e sciacalli. Ma ancora era troppo piccolo per elaborare il concetto di ambizione, e trovò acconcio portare un altro po’ di pazienza.
A dodici anni, dopo una serie indescrivibile di vessazioni e sfruttamenti e dopo aver goduto di 5 giorni di riposo in tutto, passati a far la guardia ai coyote, il nostro giovane ebbe l’insinuante percezione di non vivere appieno la sua infanzia di esile bambino dagli occhi di ghiaccio. Così si fece insegnare a scrivere da uno sciamano aborigeno (o da un surfista olandese, i ricordi di quel periodo sono piuttosto confusi anzichenò) e preparò un’educata, ma dignitosa lettera di dimissioni che consegnò, brevi manu, al capo miniera: un colossale cafone che considerava lo sputo l’espressione più profonda dell’interconnessione umana e che, ancora oggi, pare vaghi per il deserto australiano chiedendosi che accidenti significhi brevi manu. Il molosso troglodita, scorse la missiva e rimase attonito per lo stile elaborato e la freschezza dei concetti espressi. Trovò azzeccato l’uso dei segni di interpunzione e tremendamente efficaci le argute sineddoche utilizzate. Non lasciò quindi correre tempo e contattò un suo vecchio compagno di merende, ora Nobel per la letteratura, e segnalò le straordinarie doti di intreccio del piccolo Sano.
Il nostro, uscì quindi da un buco a down under, per ritrovarsi con una laurea in letteratura con parata (non è un refuso, la sua tesi fu talmente sfolgorante che il rettore organizzò una parata per le vie cittadine roteando la verga simbolo dell’ateneo come una cheerleader). In pochi anni pubblicò saggi di antropologia e semiotica, romanzi, raccolte di fiabe per bambini lavoratori e un manuale sugli accessori per la fotografia che vendette 12 milioni copie e fu tradotto anche in lingue parlate in paesi dove non esistono le macchine fotografiche.
Ma Sano era triste, triste e sano. Non era quello che sognava dal buco nella terra. Lui, moderno Ciaula, vedeva una luna diversa, ma ancora non capiva come raggiungerla.
Gli anni Ottanta, forieri di mode carnascialesche e acconciature improbabili, furono per il giovane Postatore una vera rivelazione. Furono poi le sopracciglia del campione del mondo Beppe Bergomi in arte zio, a spalancare le porte del nirvana assoluto. Sano desiderava fortemente fare il barbiere. Nel rincorrere il suo sogno, ci mise tutta la serietà e l’impegno che avevano sempre contraddistinto la sua esistenza: seguì corsi di specializzazione molto più impegnativi degli esami sostenuti all’istituto superiore di realismo critico di Londra. Sottoscrisse onerosi abbonamenti a lando il camionista, gin fizz, caballero e guerin sportivo. Rimosse dalla sua area di Broca, tramite deck di annientamento, qualsiasi traccia di congiuntivi, imparò tutto quello che c’è da sapere sul 4-4-2 sulla staffetta Mazzola-Rivera e Baggio-Del Piero, si fece spiegare da un esperto tassinaro tutte le strategie politiche per risanare il debito pubblico, e tutti i complotti segreti dalla messinscena del suicidio Giulio Cesare alla demolizione controllata delle Torri Gemelle. Infine inventò una mefitica mistura contro la caduta dei capelli (che tra gli effetti collaterali enumerava l’alopecia).
Avviò un elegante salone intitolato acconciature uomo, avendo già in mente sconfinamenti nel ramo sopracciglia, e aperture di succursali in franchising in tutte le più importanti province ciociare.
Ma non potè (potette, come ebbe a precisare lui più avanti) smettere di scrivere. Lo sconforto generato nei suoi lettori e nel suo mentore a causa dell’abbandono di cotale talento, lo intristì al punto di intagliare acconciature a salice piangente. Sentì di doverlo al suo capo minatore, errante in terra d’Australia, al suo amico nobelato e al rettore cheerleader e a tanti altri. Così nei ritagli tra i tagli, Sano impreziosisce fogli con la sua arte, senza un vero entusiasmo, ma sempre con risultati sbalorditivi. Sono lontani gli anni di Coober Pedy, di Oxford, delle dediche in seconda di copertina. Ora Postatore è felice, i suoi clienti sono soddisfatti del suo lavoro e dei suoi consigli, che cominciano tutti con “dia retta a un cretino, dotto’,” e il suo garzone scopacapelli sogna un giorno di diventare come lui: un uomo che si è fatto da per lui, imparato e dagli occhi di ghiaccio che mettono soggezione, riflessi nelle forbici swissor wenger da sei pollici.

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giovedì 20 luglio 2006

Lapo, mi è venuta un'ikea


La conferma è arrivata in questi giorni, la Fiat ha da poco siglato un accordo con il colosso svedese Ikea che arrederà tutte le concessionarie della rete. Il “rinnovo locali”, si dice nel comunicato diramato dalla Casa torinese, dovrebbe avvenire entro il 2008.
Stando alle dichiarazioni di Luca di Meo, responsabile del brand Fiat, “l’obiettivo è rendere l'acquisto di una Fiat piacevole, chiaro, ma soprattutto semplice e Ikea ci è sembrata la miglior scelta possibile".
Ora, francamente, rimango perplesso dalla mossa del marketing Fiat, uno dei reparti che a mio modesto parere ha funzionato meglio negli ultimi anni e che ha fatto del concetto “comprare italiano” ben più che un semplice motto. In tempi (non troppo remoti, ammesso e non concesso che siano finiti) in cui i prodotti automobilistici della Casa torinese erano piuttosto lontani dall’essere considerati qualitativamente ineccepibili, a qualcuno questo slogan suonava addirittura come un colpo basso. Come, insomma, se si ricorresse allo spirito patriottico dove non si poteva arrivare con le logiche di mercato. Si sono nel tempo aggiunti i “richiami all’ordine” di Montezemolo (prodigo nello sgridare i politici italiani dediti a scegliere berline di rappresentanza tedesche), le linee di abbigliamento (in cui il brand torinese campeggiava invariabilmente associato al tricolore), e chi più ne ha più ne metta.
Insomma, il fatto che dopo tutto questo clamore la Casa del Lingotto abbia deciso di siglare un accordo con un produttore svedese di mobili mi suona come un clamoroso autogol.
Capirei se nel belpaese l’industria del mobile fosse una realtà trascurabile, ma francamente mi sfugge in base a quale principio (non certo la coerenza, a questo punto) si debba andare a cercare in scandinavia ciò che viene fatto – obiettivamente meglio - qui in Italia.
E non è solo una questione di patriottismo: quanti di voi associano al concetto di “qualità” (attenzione, non di rapporto qualità/prezzo) il marchio Ikea? Io, che tutto sono tranne un esperto di arredamento, all’Ikea sono andato perché i mobili costano poco. Se mi fossi potuto permettere mobili più costosi, col piffero che l’armadio l’avrei acquistato lì.
Altra questione: secondo quale logica la sinergia con il marchio svedese renderebbe semplice l’acquisto di un’auto? Assemblare una scrivania con la chiavetta in dotazione guidati dalle istruzioni di montaggio è piacevole come insegnare alla nonna l’uso del pc. Io, che sono una mente semplice, comincio a preoccuparmi e penso piuttosto: non è che la prossima generazione di Panda la daranno in scatola di montaggio fornendoti tanti pezzetti di lamiera, le viti contate e un cacciavite a stella?
Fiero della mia ingenuità, sono inoltre portato a pensare che proprio la Casa che ha inondato il mercato delle cosiddette “kilometri 0” e che ha sempre applicato sconti da gommista (suscitando qualche lecito dubbio sull’attendibilità del listino) forse dovrebbe trovare un modo più efficace di trasmettere il concetto di semplicità.
E ancora: vale forse la pena di stipulare un accordo simile per veder comparire qualche Panda sul catalogo Ikea? Sorrido a pensare come la inseriranno negli ambienti domestici, magari parcheggiata nella cameretta dei bimbi oppure in salotto a ridosso del divano letto TylÖsand. O prevedono forse di produrre un garage a castello in scatola di montaggio?
Scherzi a parte, dalla Casa che ha lanciato la nuova Croma con lo slogan “la grande auto ritorna a parlare italiano” non mi aspettavo un simile dietrofront. Mi spiace per Napolitano e Prodi: vista l’aria che tira, facile che da Montezemolo ricevano un elegante divano di rappresentanza TylÖsand invece di una Maserati Quattroporte come i loro predecessori. Potere del marketing…

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mercoledì 19 luglio 2006

Vivi e lascia perdere


Lungi da me la presunzione di vestire i panni del maestro di vita di riferimento (e anche l’intenzione di usare di nuovo la locuzione “lungi da me”). Ritengo solo sia giunto un buon momento per riassumere alcune caratteristiche dell’odierno esistere che la vita mi ha insegnato o che mi ha fatto capire, ma non ho ancora imparato a dovere. Ecco quindi alcuni atteggiamenti sociali che sarebbe buona norma evitare se si persegue lo scorrere sereno dei propri anni terrestri:
Il diverso (non in senso erotico): se vi sentite e, in definitiva, siete differenti dalla maggior parte delle persone che vi circondano, pasciatevi della vostra non uguaglianza, ma datelo a vedere il meno possibile. In questo sarete favoriti dalla superficialità diffusa con cui la gente si guarda attorno. Purtroppo la tentazione di ostentare la propria unicità è molto forte. In primis perché spesso ci si sente orgogliosi del proprio stato di disuguaglianza e si tiene molto al non essere considerati come tutto ciò da cui ci si sente disgiunti. Poi, quel fascino un po’ dandy dato dal proprio essere egoriferiti, ringalluzzisce l’autostima e scombussola il ciclo biologico ormonale. Resistete. Sfogate il vostro istinto dissociativo in attività impegnative, non so, la scrittura, la pittura, il ping pong. I rischi sono incalcolabili. Dimostrando di non essere come gli altri, alcune persone si avvicineranno a voi incuriosite. Così come si avvicinano alla scena di un incidente stradale. Vi diranno quanto siete interessanti e che emozione sia stare vicino a qualcuno non appiattito dagli schemi sociali. Penderanno dalle vostre labbra e vi ascolteranno con clangore di orecchie. Fino a quando….
Un maledetto giorno vi sbatteranno in faccia la vostra diversità e vi accuseranno di non fare quello che fanno tutti, di non rispondere come gli altri e non agire come è normale aspettarsi da qualcuno e vi faranno sentire in colpa per le sofferenze che causerete per questi motivi. Anche se era proprio per quello che si erano avvicinati a voi. Come quando, giunti di fronte alle lamiere insanguinate, si lamentano dello spettacolo raccapricciante e di quanto stiano male per averlo visto.
La sindrome di Tamerlano (l’ho inventata io): non consideratevi mai parte determinante o vieppiù necessaria di qualcosa e soprattutto, considerandovi tali, non minacciate mai di andarvene ventilando conseguenze disastrose. Quasi sempre, il vostro allontanamento non causerà il collasso che la morte di Tamerlano provocò nel suo immenso regno. Anzi, è anche probabile che si verifichi un periodo di sereno fulgore dovuto alla cessazione di una situazione di attrito. Una sorta di estate indiana. Non aggiungete poi all’umiliazione di vedersi indicare la porta in risposta alla minaccia di andarvene, il triste rimanere sull’uscio, per vedere se davvero moriranno tra sofferenze atroci senza di voi (e poterne godere), perché dimostrerete di avere più bisogno voi di loro di quanto ne avessero eccetera eccetera. Abbandonare dovrebbe essere la scelta finale, quando non ce ne siano di migliori, non uno strumento per ottenere attenzione o vantaggi, ci si rimette sempre, perlomeno in dignità.
La sindrome di atlante (questa esiste davvero): è una infamissima e particolarissima sindrome che, per assurdo colpisce voi, ma si manifesta nell’atteggiamento delle persone che vi sono intorno. Succede se, per ingiustizia divina, vi ritrovate con capacità di gestione dei problemi superiori alla media statistica del vostro condominio. In un lento ed inesorabile climax di delirio, le persone che vi circondano pretenderanno con sempre maggiore spocchia, che voi vi occupiate di qualsiasi questione richieda il benchè minimo sforzo. Dalla perfetta organizzazione del pic nic fantozziano, al trovare marito per sorelle fango, al curare malattie rare o appena scoperte su chi vi ha chiesto aiuto. Fin qui, potreste anche accettare il vostro karma e prestarvi all’abuso, ipotizzando che le vostre doti vi siano state fornite per qualche nobile scopo sociale e non a seguito di un sozzo sorteggione. Il problema è la karma degli altri. Se infatti, dopo essere stati investiti da un treno merci, mentre andavate al funerale di una persona cara e nonostante la sepsi, presa in ospedale per un intervento di rimozione di una pallottola vagante, vi abbia debilitato il giusto, vi prendete il lusso di negarvi a qualcuno, verrete immediatamente considerati alla stregua dell’impalatore di teste. Un mostro tricefalo con un bacarozzo al posto del cuore. Piuttosto che accettare il vostro rifiuto, preferiranno la morte…la vostra…solitamente tramite lenta e letale somministrazione di sensi di colpa.
Etichette: sfuggite come la peste polmonare, qualsiasi identificazione. Non importa se politica, sociale, religiosa, sportiva o sessuale. Le etichette sono portatrici di tremende malattie. Servono a semplificare la concezione di quello che siete. Rendendo, all’occorrenza, anche molto facile la vostra distruzione. Qualsiasi definizione comprende necessariamente in sé anche attributi che probabilmente non vi appartengono, ma nessuno se ne occuperà, ammucchiandovi in un unico triste e sovraffollato calderone di banalità. Per sovramercato, le etichette cambiano spesso i loro significati correlati e voi ci rimanete invischiati anche se siete rimasti immutati negli anni: essere il marito di qualcuno per i primi tempi significa amore, condivisione e famiglia, dopo un certo numero di anni marito corrisponde a un culo che spunta dal frigorifero. Ingegnere è un titolo che nobilita e contraddistingue….a militare il tenente chiese se ci fossero degli ingegneri, un paio alzarono la mano..”a pulire i cessi” ordinò con un ghigno che noi tutti trattenemmo a stento. Metti poi di essere stato sempre socialista. Nel dopoguerra andavi in giro tronfio, nel dopo Di Pietro hai dovuto staccarti l’etichetta con l’acquaragia.
Insomma non solo le etichette non vi rappresenteranno mai a dovere, ma dall’avere un simbolo distintivo, finirete per rincorrere significati che vi sfuggiranno di mano. Se avete anche solo qualcosa di personale (di personalità) fatevi definire solo col vostro nome. Non siate la fidanzata di qualcuno, siate la Giovanpaola di qualcuno.

Per oggi è sufficiente, appena prendo altre facciate (leggasi imparo qualcos’altro) sarete i primi a saperlo.

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martedì 18 luglio 2006

Insulti all'intelligenza


Frocio non è una brutta parola, deriva dal greco froceus che significa….saggezza!
La Porta/Guzzanti
La Suprema Corte ha, in questi giorni ribaltato la sentenza del giudice di pace di Teramo, configurando come reato dare del frocio perché “Si ravvisa nel termine un chiaro intento di derisione e di scherno espresso in forma graffiante”. Ma graffiante?? Burlona corte, altro che suprema. Dare ragione a un gay dicendo che il suo ingiuriatore è stato graffiante. Che poi non è dato sapere se la parte lesa sia davvero omosessuale. Le ipotesi sono diverse: in presenza di eterosessualità il querelante deve essersi sentito offeso nella sua virilità di copritore di femmine. Nel qual caso avrebbe potuto rispondere suggerendo all’imputato di reperire informazioni in merito presso la di lui sorella. Ma Materazzi ancora non aveva fatto scuola. La scelta di ricorrere alle vie legali, invece, si potrebbe configurare come lesiva della dignità degli omosessuali, che avrebbero ben donde di sentirsi piccati dal considerare un’onta l’appartenenza a determinate predilezioni sessuali.
Nel caso di reale omosessualità, è ovvio che l’offeso si sia sentito tale a causa del modo socialmente negativo di definirlo e non certo dalle caratteristiche che la definizione descrive, dato che corrispondono a verità. In questo senso frocio appartiene a quella categoria di insulti che non ipotizzano una possibile caratteristica negativa (per esempio supporre che il primo ministro sia un buffone, cosa che, in quanto ipotetica, non costituisce reato), ma tendono a far sembrare degna di derisione una realtà di cui si è perlopiù incolpevoli e che qualche sottocultura sociale ha identificato come celiabile. Faccio degli esempi così capisco meglio. Rientrano in questo sottoinsieme di ingiurie, epiteti del tipo negro, ciccione, terrone, cesso, ignorante e via discorrendo. Avendo la possibilità di ragionare con lucidità, si potrebbe pensare che chiunque si sentisse offeso dalla parola ciccione, dimostrerebbe di subire a livello personale, le implicazioni negative che il contesto sociale in cui è immerso riserva a chi è dotato di epa prominente. Quindi, il suo reagire non è volto a dimostrare di non essere in sovrappeso, ma alla ricerca di soddisfazione per la propria sensibilità ferita, una sensibilità che è però stata costruita dal contesto “civile”. Sì lo so che sto semplicemente definendo la differenza tra diffamazione e ingiurie, ma non è qui che voglio arrivare. Il mio sospetto è che questi “processi” non tengano conto del litigio. E’ logico pensare che le persone coinvolte fossero in contrasto personale e se le argomentazioni in gioco si limitano agli appellativi personali, è ovvio che la stupidità ha, come spesso accade, preso il sopravvento. Quindi il processo che ne consegue non è che un traslocare la stupidità dalla strada a un’aula di tribunale. L’atto stesso della denuncia non è che una coda del bisticcio e non una battaglia morale contro la discriminazione, altrimenti bisognerebbe querelare gran parte del sistema sociale in cui si vive. Oltretutto, denunciare uno stupido per stupidità farà di uno stupido, uno stupido incarognito. Né si può affermare che bandire una brutta parola dal dizionario legale, sia un passo verso la tolleranza e l’evoluzione civile. E uso tolleranza in modo improprio, perché non vedo in che modo dovrebbe rendersi necessaria della tolleranza verso persone che hanno caratteristiche diverse dalle mie (nello specifico tutte), in fondo nessuno, giustamente, si preoccupa di tollerare me. Perchè la parola tolleranza sottoindende in qualche modo la sopportazione di qualcosa di spiacevole. E io non trovo spiacevole un'epa prominente. Sono la stupidità, l’arroganza, la superficialità che non vanno tollerate. Ma non combattute, altrimenti si rischia che chi osserva, non noti la differenza e si finisce a lanciarsi missili senza più capire davvero che cosa stia succedendo. Vanno isolate, vanno messe di fronte alla loro pochezza, attraverso l’indifferenza e a una consapevolezza personale e sociale diversa.
I giornali, le televisioni e le aule di tribunale sono sempre la cassa di risonanza per la cultura dello scontro, per l’esaltazione di valori superficiali per i quali è giusto azzuffarsi. Così finisce in prima pagina l’interesse morboso, ma non sessuale, della madre di Zidane verso i testicoli di un calciatore. Il problema è che a molti interessa davvero. Molta gente ancora discute su che cosa può aver detto Materazzi e se la reazione del francese, di sua madre, della sorella, della francia, della federazione mondiale e delle rispettive confessioni sia giustificabile o meno.
C’è ancora qualcuno che si chiede perché il nostro pianeta è pieno di armi e di imbecilli che le usano? Come può risolversi la crisi in medio oriente e tutti i medii orienti che seguiranno, se prima non ci occupiamo del fatto che, per molta gente, evoluzione significa avere il nuovo cellulare con google?

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lunedì 17 luglio 2006

Mi sento libero, ma presto starò meglio


Io mento è il paradosso linguistico più breve che esista. Lo so bene perché all’esame di logica il mio professore non gradì la mia arguta obiezione che rivendicava la maggiore brevità di io naso. Esistono proposizioni che nascondono insidiosi trabocchetti, non solo logici, ma anche filosofici e spesso grammaticali. Per esempio io sono libero è una frase capace di smuovere le fondamenta stesse dell’esistenza, a meno che i vostri genitori non vi abbiano battezzato con l’aggettivo in questione. Libero è una parola strana ed esigente. Mica come tutte le altre, chessò, palafreniere per esempio. Libero non può mai terminare una frase, mentre palafreniere sì. Libero è un concetto negativo: esprime cioè l’assenza di qualcosa. Uno libero di parlare non ha qualcuno che lo faccia tacere, uno libero di muoversi non ha ostacoli o impedimenti, nel calcio il libero non ha un avversario da marcare, nella pallavolo il libero non attacca, un maschio libero non ha una partner, un cesso libero non ha una persona all’interno, come del resto una donna libera e compagnia cantando. Quindi la parola libero dovrebbe essere sempre seguita dalla descrizione delle cose di cui può fare a meno, altrimenti perde significato, invece palafreniere, dove lo metti lo metti, sempre palafreniere è.
Ma andiamo con ordine. Alcuni quesiti filosofici (significa senza risposta sensata): la libertà necessita di esistenza? Si può essere liberi senza esistere? In fondo potremmo essere tutti il sogno di qualcuno, sospetto insinuato da Borges e dai Propaganda. O, peggio ancora, potrebbe esistere solo quel ciccione del mio vicino di casa. E se fossimo solo un pensiero, saremmo un libero pensiero? Se è così ne cala che l’attributo libero non richiede una reale concretezza e nemmeno una polizza infortuni.
Essere liberi prevede l’esercizio di codesta libertà? Se sì, bisogna chiedersi se esista il libero arbitrio. Secondo Moggi no, ma Paparesta ha espresso riserve in merito. L’annosa questione del libero arbitrio ha aperto una lunga zuffa dialettica tra i suoi sostenitori e i deterministi. I primi postulano la possibilità di prendere una decisione nella libertà di indifferenza che, oltre a permetterti di fischiettare nell’esercizio di tale funzione, non ti lega a vincoli di necessità con le cause e le conseguenze della scelta fatta. I deterministi, non avendo troppo tempo da perdere, sostengono di rinfaccio, che puoi chiacchierare e arrovellarti quanto ti pare tanto la scelta che farai è già scritta, il che è seccante se hai passato 45 minuti davanti all’armadio per decidere cosa mettere (viene da chiedersi però quale entità si sia presa la briga di scrivere che cosa ti saresti messo e soprattutto come faccia ad avere un tale cattivo gusto).
Questa allegra tenzone si è risolta con l’istituzione di un accapigliamento ancor più caotico tra i deterministi compatibilisti, in accordo con i libertaristi compatibilisti, e gli incompatibilisti delle due fazioni. La cosa sembra molto complessa, ma testimonianze attendibili riferiscono di Hobbes, Spinoza, e Kant al pub il filosofo spettinato, mentre ebbri di birra, ridevano degli studenti che sottolineano parti dei loro libri, sentenziando giusto a margine, scritte dalla governante cilena.
Indipendentemente dal suo effettivo significato, la libertà appare comunque come qualcosa di limitato, come tutto ha un limite nella realtà che concepiamo (a parte la noia generata da un programma della Palombelli). Anche nelle condizioni più favorevoli, infatti, la nostra libertà è limitata da ciò che realmente siamo in grado di mettere in pratica. Io posso sentirmi libero di volare, ma se mi lancio dal tetto di casa mia, punterò miseramente verso il centro della terra per ragioni newtoniane che non sono state messe a conoscenza del mio libero entusiasmo volereccio. Per dovere di precisione e con buona pace della concisione, la parola libertà andrebbe quindi sempre sostituita da un elenco ragionato di cose che ci è concesso fare dai nostri limiti, dalla società, dal contesto in cui ci troviamo. Se le libertà in questione fossero in quantità opulenta, si può scegliere (essendo libertaristi o deterministi compatibilisti) di compilare un elenco di limiti considerando tutto il resto fattibile.
Sarà per questo che in barba alle libertà politiche, sociali e culturali, nelle filosofie orientali il concetto di libertà è sempre collegato al distacco dalle cose terrene, un distacco che libera davvero da ogni limite. Concetto difficile da mantenere in testa: è come pensare per più di 3 secondi all’infinità dell’universo senza cadere per terra in preda ad attacchi epilettici. A questo dovrebbe portare il nirvana buddista o la liberazione dal samsara indiano (che sarebbe quello che ci costringe a reincarnarci per aver fatto delle marachelle nella vita precedente o perché si è lasciato il latte sul fuoco).
In definitiva, dagli antichi greci ad oggi, la libertà è stata definita in molti modi: coincidente con la necessità (mentre quella degli altri è prepotenza), con i diritti politici, con la felicità, la consapevolezza e via discorrendo. Come si fa a capire dove c’è libertà? Non è per niente facile. Molto più semplice capire dove c’è un palafreniere. Perché la libertà è una sensazione. Ci si sente liberi se i limiti imposti non ci vanno stretti. La ricerca della libertà è il tentativo di allargare il proprio spazio di manovra, abbattendo limiti che avvertiamo come soffocanti. Ne discende che qui c’è libertà significa qui potete fare questo (vedi elenco), ma potrei descrivere lo stesso luogo dicendo qui non c’è libertà perché non si può fare quello (vedi elenco B). In pratica io sono libero se mi accontento dello spazio di manovra concessomi.
Insomma la libertà è una cosa stupenda per cui combattere, ma una volta acquisita è una gran brutta gatta da pelare. Va gestita, controllata, organizzata (rischiando così di somigliare più a un palafreniere che a una libertà) e più cose ci è consentito fare, più farloccate possiamo combinare. Insomma per essere liberi occorre saggezza, forza, spirito…è un po’ come un prestito in banca, ce l’hai se non ne hai bisogno.
Qualcuno ha detto “Mio dio, sono libero. Liberatemi della libertà”

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giovedì 13 luglio 2006

FUCK SUV FAQ


Insomma, i SUV. Chi non sa cosa sono è un beato. Tutti ne parlano, il marketing e la pubblicità soprattutto. L’acronimo “SUV” è una tipica invenzione della comunicazione d’impresa, neanche mal riuscita, devo ammettere. Vuol dire Sport Utility Vehicle, definizione creata da creativi e dunque felice per definizione. Significando tutto e nulla, identifica un tipo di auto che serve a tutto e a nulla: il SUV ha un nonsocché di fuoristrada (carrozzeria alta, trazione integrale…) e fa il verso alle berline di lusso e alle auto sportive (esclusività, finiture pregiate…).
I SUV sono al centro di una polemica planetaria che vede contrapposti i costruttori, che con tale genia di veicoli si sono inventati una nicchia di mercato molto redditizia (inizialmente negli USA, poi anche qua), e gli ecologisti di ogni ordine e grado, che riconoscono in queste balzane vetture il prototipo del flagello ambientale politicamente scorretto. Di qui s’è originata una specie di cultura della repressione, talvolta alimentata da filippiche accuratamente documentate e redatte da persone che hanno affrontato scientificamente l’argomento (Legambiente, per dire), talaltra argomentata con mugugni approssimativi modaiol-demagogici a opera di saltimbanchi e ballerine incolti o in malafede. Da tempo sono segnalati effetti pratici, quali discutibili limitazioni dell’accesso deI SUV in città (Firenze, per dire), oppure potenziali, quali ventilate future restrizioni e tassazioni varie che schiaffeggino gli odiati macchinoni (o meglio i loro improvvidi proprietari).
Dal momento che in tutto ciò riconosco alcuni tratti delle guerre di religione, genere d’attività alquanto molesto, mi punge vaghezza di fornire ai tapini proprietari di questi detestati veicoli, come pure ai conversatori brillanti che si trovassero nel bel mezzo di una disputa farisaica sul tema, argomenti per contrastare, o quanto meno confondere con orgoglio qualunquista, la stantia dialettica dell’avversario, alternando con iattante scorrettezza attacchi di merito e invettive personali (esempio d’attacco di merito: hai detto un’idiozia; esempio d’invettiva personale: sei un idiota).
E, sia chiaro, non lo faccio perché devo disfarmi di un SUV di seconda mano (sono un barbiere, mica uno spacciatore d’auto).

Passando alla pratica, SE VI SENTITE DIRE CHE…
… I SUV consumano (e inquinano) più delle auto normali, REPLICATE che lo sapete benissimo, ma dipende anche quanto li si adopera. Se uno ha un SUV e un motorino, e usa il motorino ogni volta che può e il SUV solo per andare via la domenica o quando piove, globalmente consuma (e inquina) meno di uno che tiene il deretano ventiquattr’ore su ventiquattro sulla sua utilitaria. Se non basta, date addosso a chi va bruciando kerosene nell’atmosfera in Jumbo per andare a fare il cazzone alle Maldive: è probabile che il vostro interlocutore rientri nella categoria. Se ancora insiste, buttatela sugli sprechi dei riscaldamenti condominiali centralizzati non termostatati e sulle finestre che chiudono male.
…I SUV sono malsicuri perché se urtano una vettura più piccola la devastano, REPLICATE che è così anche per i camioncini dei venditori di porchetta, per i TIR, per i camper eccetera eccetera, che per altro difficilmente dispongono dei controlli elettronici di frenata e stabilità di cui sono (inevitabilmente, altrimenti sarebbero inguidabili) imbottiti i potentissimi SUV. Se non basta, domandate al paladino della sicurtà stradale qual è l’ultima volta che ha controllato la pressione delle gomme della sua vettura: se non risponde a modo, prendetelo a calci nel sedere. Inoltre, spiegategli che è inutile che lui e sua moglie allaccino le cinture lasciando che il pargoletto faccia le capriole sul divano posteriore. E poi, per favore, diffidatelo dall’entrare in autostrada con quel materasso legato sul tetto, grazie.
…I SUV dovrebbero essere supertassati perché sono simboli del lusso e del potere, REPLICATE che prendersela con i simboli è cosa diversa che prendersela con le persone e con le loro intenzioni. Con questa logica, si potrebbero tassare le mogli bionde qua e le mogli more in Svezia, ancor più se giovani e bonazze.
…I SUV, in un Paese Civilizzato Dotato di Infrastrutture, in fondo, non servono a niente, AMMETTETE che è verissimo. Poi fatevi spiegare a cosa servono, in fondo, una canna da pesca, un fucile da caccia, una pistola da tiro a segno, un videofonino, uno Shuttle Columbia Enterprise, 28 testate nucleari, la pelliccia di tua moglie nell’armadio, la settimana bianca, la scuola di salsa, o i campi da golf che vanno contro ogni logica del mantenimento di un fondo secondo il principio delle coltivazioni alternate. Sulla strada del nichilismo, nessuno oserà starvi appresso.
…i conducenti di SUV sono solitamente meno civili dei conducenti di vetture convenzionali, dunque spadroneggiano parcheggiando in doppia fila, montando sui marciapiedi, spaventando le vecchiette sulle strisce pedonali, AMMETTETE che è verosimile. Poi invitate l’interlocutore a ricondurre la conversazione sulle vetture (prive di autodeterminazione) anziché insistere sui conducenti (che se stolti sono, stolti restano, anche sugli sci o alla guida di un monopattino).
…I SUV sono troppo grandi per le nostre strade, REPLICATE che a parte qualche eccezione, i modelli più diffusi hanno lunghezza e larghezza simili a una grossa berlina: sono la loro maggiore altezza e le ruotone che li fanno sembrare più ingombranti. Indi fatevi spiegare se l’origine dell’odio è dimensionale o di forma. Rappresentate poi come, a proposito della circolazione in città, eventuali limiti andrebbero basati non sulla tipologia di veicolo, ma su elementi oggettivi quali peso, dimensioni e cilindrata (quindi non dovrebbero riguardare solo I SUV). E, cosa civile e importante, dovrebbero essere applicati solo ai veicoli di nuova immatricolazione, cosicché uno possa sapere in anticipo a cosa va incontro, anziché dopo aver comprato l’auto: il principio secondo cui la Comunità-Stato ti lascia fare qualcosa e poi usa quel qualcosa per spillarti soldi o importi vincoli, fa pensare a un mostruoso processo alle intenzioni retroattivo. Ancora, attenzione: per certi versi una logica del genere è paradossale e potrebbe portare al divieto di circolazione per chi viaggia in auto da solo, dal momento che se costui si servisse d’una motoretta eviterebbe di portare a spasso sedili vuoti. A tal proposito, è interessante che in alcuni luoghi del pianeta vige un principio lievemente più intelligente dell’italica tendenza alla demonizzazione: ci sono corsie preferenziali riservate alle auto con almeno tre persone a bordo (car-pool lane). Gli altri, in coda.

Concludendo, a scanso di commenti interlocutori, ribadisco che i SUV non mi sono simpatici (mi piacciono le macchine, quindi non i SUV), ma nemmeno riesco a stigmatizzare chi li usa. Sono convinto che un’auto debba servire a qualcosa di concreto: per caricare molte persone e molte cose, per andare molto forte, per andare fuoristrada. Un SUV di solito permette di caricare meno cose di una station wagon di simili dimensioni, va molto più piano di una sportiva di pari potenza, è meno pratico (e più vulnerabile) di una fuoristrada “vera”, e per giunta costa di più di una qualsiasi di queste auto… Certo, qualcuno si sentirà d’eccepire che un SUV può avere effetto positivo sulle potenzialità riproduttive del maschio, che al suo interno può facilmente attecchire una soubrette, che i calciatori guidano SUV e impalmano veline e via discorrendo. Ma ciò non mi tange: detto fra noi 10.003 e rotti, le femmine cadono ai miei piedi nonostante guidi una 127 Sport. Me lo ha spiegato una mia amica proprio l’altra sera, e lei è una che non fa concessioni, quindi non sto parlando di una concessionaria.

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mercoledì 12 luglio 2006

Plug & Pray

La notizia è ufficiale: dal 2008 sarà la Microsoft a mettere a disposizione dei team le centraline elettriche di gestione delle monoposto di formula 1.
Per chi, come me, con i sistemi operativi di Redmond ci lavora quotidianamente, la notizia non può che suscitare un’incontenibile ilarità. Già mi immagino intere equipe di esperti pronte a progettare le modifiche alle monoposto. Tanto per cominciare si prospetta l’aggiunta di ben quattro tasti sul già affollato volante della vettura: il pilota, calandosi nell’abitacolo, dovrà accedere premendo Control-Alt-Canc (operazione che con i guanti indosso è tutt’altro che banale) e potrà ingranare la marcia solo dopo aver premuto il tasto Start.
Ovviamente la gestione degli aggiornamenti, da effettuarsi almeno una volta a settimana per consentire un “adeguato livello di sicurezza”, non verrà più effettuata tramite obsolete porte seriali bensì direttamente via internet. Poco importa se, alla fine del download, tecnici e meccanici dovranno sudare freddo sperando che l’ultima versione del software non abbia creato conflitti tra il driver del sistema di valvole pneumatiche e il controller USB.
Grossi cambiamenti avverranno anche durante la gara: il cambio gomme, per esempio, si allungherà notevolmente per consentire al sistema di riconoscere la nuova periferica installata. Un meccanico del team sarò comunque sempre pronto con un cd in mano nel caso malaugurato in cui la periferica di rotolamento non venisse riconosciuta e fossero necessari nuovi driver. Ovviamente, al termine della procedura il sistema verrà riavviato e si prevede quindi una notevole dilatazione dei tempi di pit stop, a tutto vantaggio dello spettacolo.
Diversa anche la procedura che verrà seguita in caso di incidente. Qualora vetture incidentate fossero presenti sul percorso (le quali, presumibilmente, cercheranno di trasmettere a Microsoft il motivo del crash di sistema) non sarà più la safety car a intervenire bensì semplicemente le monoposto in pista saranno messe in modalità provvisoria: con funzionalità limitate sarà assolutamente impossibile eseguire sorpassi e/o manovre pericolose, consentendo ai commissari di eseguire tutte le operazioni necessarie al ripristino delle condizioni di sicurezza ideali. Il tutto, sopportando alcuni inconvenienti trascurabili: in modalità provvisoria gli spettatori vedranno le macchine con un massimo di 16 colori, la telemetria funzionerà a carbonella e i piloti negli specchietti vedranno le altre vetture come dei quadratoni colorati.
Non tutto il male, comunque, viene per nuocere, visto che con l’avvento di Microsoft in formula1 c’è da scommettere che le gare saranno più spettacolari e combattute. Tra i motivi di ritiro, quindi, non figureranno più solo il guasto meccanico, l'incidente o la fine del carburante, ma anche l’eccezione fatale e l’errore di protezione della memoria, così come è facile prevedere che da metà stagione in poi saranno le squadre dotate dell’ultimo service pack a godere dei vantaggi competitivi maggiori, mentre le scuderie più lungimiranti cominceranno a testare sottobanco centraline elettroniche dotate di Linux. Queste centraline saranno probabilmente più lente e più difficilmente configurabili, ma impediranno al sistema di essere attaccato da un virus ungherese che, prendendo il controllo del sistema elettronico, potrebbe mandare in testacoda la monoposto e farle fare un paio di giri di pista contromano, diffondendosi poi a tutte le vetture che urterebbe nel suo percorso.
Certo si potrebbe affrontare il rischio installando un buon antivirus sopportando l’inconveniente di vedere la propria velocità di punta ridursi drasticamente in fase di scarico da internet dell’ultima release prodotta in fretta e furia per la spaventosa diffusione di un virus albanese che fora gli scarichi creando il noto effetto moto a scoreggetta. Però se il pilota evitasse di aprire, in pieno rettilineo, la mail con allegato che ha come oggetto tue foto nudo, sarebbe meglio.
Si salvi chi può.

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martedì 11 luglio 2006

Il mercato dei valori


Quando penso alle strategie di marketing, mi immagino un pool formato da psicologi, economisti, trend setter (che pare non sia un cane da caccia) tutti spettinati dalla tempesta di cervelli che allestiscono per convincerti che acquistare il loro prodotto è la cosa più sensata che tu possa fare. Quelli più bravi riescono anche a non convincerti ma fare ugualmente in modo che tu non commetta la tremenda sciocchezza di privarti della merce in questione. Io li definisco bravi, ma anche brutti infamoni va bene. Loro sanno che per risparmiare i soldi per la baby sitter o per guadagnare un angolo di pace, tu, padre snaturato, affastelli i tuoi bambini davanti alla televisione e loro ne approfittano per rimbambirli di oggetti che si giocano da soli, così i tuoi figli non sudano e soprattutto si stufano prima. In questo modo, i subdoli mercanti dello scempio, potranno contare sul devastante frullamento di testicoli che i cuccioli metteranno in atto, solitamente ripetendo fino alla morte cerebrale del genitore, la frase “me lo compri?”. Insomma questa è gente che ci conosce bene, sa come prenderci, quali sono i nostri punti deboli e come sfruttarli.
Poi però vedo una pubblicità che recita “manda un sms e ti diciamo ogni giorno se il tuo partner ti tradisce”. Allora penso che in realtà c’è dietro un tizio che fino al giorno prima ha sventrato sardine, che dice “vediamo se si bevono questa”. E invece no, perché funziona (non nel senso che sanno davvero se hai le corna), la gente manda sms e loro guadagnano. Certo il mio primo pensiero è stato che la gente si è bevuta il cervello (e non si è nemmeno dissetata molto), ma forse sono io che non colgo dei dettagli delle manovre commerciali. Ci deve essere un messaggio che non recepisco anche nella pubblicità che mi suggerisce di bere uno yogurt che è in grado di soddisfare tutto il mio fabbisogno di calcio giornaliero. Esigenza a cui, secondo loro, potrei sopperire mangiando un secchio di carciofi. Io non voglio mettermi a discutere sulla quantità di carciofi che il mio organismo brama per la sua sopravvivenza, certo è che se le cose stanno così è possibile che per assimilare il giusto quantitativo di potassio io debba ingerire ogni giorno un furgoncino di patate, per il ferro un vagone di frattaglie (o, a scelta, il vagone) e via discorrendo. Così creperò satollo e con tutti gli elementi a norma.
Un altro messaggio che non colgo è quello che gli smerciatori di presidi medici sono costretti a dare per legge al termine del loro spottino. Purtroppo il decreto non si esprime sulla velocità a cui deve essere passata l’informazione. Io sono anni che registro quelle pubblicità e le riascolto al contrario sperando di trovarci una ghost track dei black sabbath, ma niente.
Io il dubbio ce l’ho. Sono bravissimi i pubblicitari o i messaggi promozionali sono lo specchio della nostra civiltà (nel qual caso, meglio avere specchi di legno)? Lascio cadere, come corpo morto cade, questo dilemma e mi spingo oltre. Se questo mezzo di condizionamento sociale funziona così bene perché non lo si usa per risolvere importanti piaghe sociali? E’ vero ci sono le pubblicità progresso, ma appare evidente che i creatori sono quelli scartati dalle multinazionali. Va bene il punkabbestia che raccoglie il portafogli al vecchietto, ma ci vuole qualcosa di più concreto.
Per esempio le stragi sulle strade. Le immagini delle lamiere contorte di automobili colpiscono solo chi già si fa scrupoli di suo. Penso che il tizio che passa imperterrito in mezzo all’autostrada sotto al cartello (dove solitamente c’è indicato il numero di persone che muore leggendo i cartelli) che descrive l’obbligo di usare la corsia più a destra, vada colpito nell’orgoglio, nei suoi valori costituenti. Bisogna tempestare i suoi programmi preferiti (buona domenica, la fattoria ecc.) con pubblicità dove si vede un automobilista tenere l’atteggiamento tipico dell’italiano celhopiùgrosso col gomito aerodinamico, con una voce in sottofondo (stile documentario di piero angela) che spiega che tale soggetto è molto probabilmente impotente ed è considerato socialmente utile ridergli in faccia ed evitare di accoppiarsi con lui.
In fondo se è politicamente corretto dire che non mi posso costruire una famiglia se non compro un frullatore a 12 velocità con connessione usb, si potrà fare anche questo. Ecco, bisogna incentivare la demolizione sociale di questi elementi. E’ inutile stare a dire questo non si può, questo sì, questo solo se non ti vede nessuno. Sappiamo bene che dare dei divieti spinge a trasgredire. Andrebbe pubblicizzata semplicemente la stupidità e premiato chi la denigra. Tipo 2 punti in più sulla patente a chi, passando di fianco a un idiota motorizzato, gli rida fragorosamente in faccia facendo con pollice e indice il segno internazionale di una cosa corta.
Insomma un po’ di ardimento anche nelle pubblicità socialmente utili, se funziona per l’arriciapeli del cane, funzionerà anche per le cose serie. Non ci voleva molto a capirlo, tutti gli spacciatori di inutilità puntano su sesso, potere, successo, risonanza sociale…..e qui stiamo ancora a puntare sulla sensibilità delle persone. Le persone sensibili non hanno bisogno di sapere come rispettare la vita, quelle insensibili ci fanno il luppolo con i richiami ai valori sociali. Allora impariamo dalle reclame dei telefoni e dei siliconi sigillanti: no civiltà, no gnocca. Aut. Min. Ric.

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venerdì 7 luglio 2006

Lettera aperta ai gay


Allora ditelo che vi piace cacciarvi nei guai. Alcune premesse: io non ho niente in favore dei gay (scusate ma mi stanno antipatici quelli che dicono “io non ho niente contro gli omosessuali, anzi ho tantissimi amici gay”, che già il fatto che uno abbia tantissimi amici è sospetto), in generale non capisco perché bisogna avere qualcosa a favore o contro. Non so nemmeno che cosa pensino loro di me. Va bene da un punto di vista evolutivo bisogna ammettere che gli omosessuali fanno un po’ di fatica a procreare, ma la faccio anche io ve lo assicuro. L’unica cosa che davvero non sopporto sono i gay che dopo 5 minuti che mi conoscono scuotono la testa con compassione avvertendomi del fatto che per tutta la vita mi sono ingannato non capendo niente di me stesso. Questo gli uomini, le donne mi sputano direttamente in faccia. Per il resto capisco tutto. L’altro giorno ho sentito parlare un tizio che si è operato, è diventato donna e ora è lesbica. Siamo onesti, ha realizzato il sogno segreto di tutti noi maschietti e del tizio che diceva “se fossi donna starei sempre a toccarmi le tette”. Fatte queste premesse, ho bisogno di capire una cosa.
Gli omosessuali, dalla fine del mondo antico, hanno subito le peggiori persecuzioni sociali, psicologiche e fisiche che la storia ricordi. Hanno dovuto lottare di nascosto contro le religioni, la politica, l’emarginazione, hanno dovuto persino liberarsi dell’accusa di untori dell’aids. Senza contare le lotte intestine, per esempio, tra chi non si sente rappresentato dall’orgoglio gay strombazzato in piazza con abiti bizzarri e chi invece vuole una rivoluzione sessuale senza limiti. Insomma una vitaccia. Tutta la mia comprensione. Ma ragazzi….ma come accidenti vi è venuto in mente adesso di volervi sposare??? Allora siete masochisti. Lo fate apposta.
Eravate gli unici immuni da questa piaga sociale di dimensioni catastrofiche. Intendiamoci, ci sono matrimoni che funzionano e che non creano alcun tipo di problematica, come, del resto, ci sono parti plurigemellari….succede. Adesso io non voglio parlare di implicazioni socio economiche. Ci sono sicuramente molte questioni legate a eredità, comunione di beni, salute eccetera eccetera. Ma allora lottiamo per queste cose. Lasciate perdere il matrimonio. Certo qualcuno potrebbe dire che desidera almeno la possibilità di scegliere, di decidere se sposarsi o meno. E’ questo l’errore. Il matrimonio è lì che vi svolazza sulla testa come un avvoltoio affamato: al primo momento di debolezza vi piomba addosso senza pietà e quel momento di debolezza lo rimpiangerete tutta la vita. Ora gli omosessuali hanno un vantaggio enorme. In quel drammatico momento possono solo dire “mi piacerebbe poterti sposare” e via….tutto finito. Ma sapete quanta gente eterosessuale ora pagherebbe per aver avuto allora qualcuno che gli impedisse di fare questo passo?? Miliardi, miliardi di gente.
Pensateci bene. Ancora oggi la gente si sposa per i motivi più stupidi: per uscire di casa, per non stare solo, a volte solo per fare la cerimonia o perché “le mie amiche sono tutte sposate”. Voi non li avete questi problemi. Tanto il giorno che avete deciso di parlare alla vostra famiglia di come siete davvero, a farvi uscire di casa ci avranno pensato loro. Come diceva un mio amico di colore “meglio essere negri che gay, se sei negro non devi dirlo a tua madre”. Non avete nemmeno il problema di aver messo incinta qualcuno per sbaglio e dover riparare se no il padre vi gambizza. E poi sapete sempre dove andare. Ci sono posti organizzati. E’ vero può sembrare una forma di ghettizzazione, ma la gente ghettizza per molto meno. Perché sei grasso, brutto o disabile. E a volte vi invidio: di gay bar è pieno il mondo, ma di disadattat bar non ne ho ancora visti.
Gli omosessuali hanno sempre lottato per poter essere semplicemente quello che sono, per esprimersi con la loro vera personalità, senza dover sottostare ai dettami della moralità costituita e, accidenti, hanno faticato come una balena stanca. E ora? Vogliono anche loro il contratto sociale più normalizzante, spersonalizzante e limitante che sia mai stato progettato? Così mi fate crollare un mito, non avete mai accettato le regole imposte da altri esattamente come cerco sempre di fare io e ora volete entrare in un mondo in cui tutto è già codificato. Come si certifica l’amore e come finirà. Dite la verità, avete un accordo con le lobby degli avvocati divorzisti, ditelo su, io vi capirò, ma non potete crollare anche voi, non mi lasciate solo vi prego.
Scusate, mi sono lasciato un attimo trasportare dalle emozioni. Vi sembrerà strano, ma io non voglio demonizzare il matrimonio, voglio innalzare l’uomo. Passiamo un buon 80% del nostro tempo a fare cose che, dipendesse da noi, non faremmo. Cose che ci dicono altri di fare e come fare. In quel piccolo spazio che ci rimane, lo spazio del nostro tempo, del nostro intimo, dei sentimenti, non possiamo anche lì farci condizionare da regole scritte da altri, non possiamo farci dire anche lì come si fa e come non si fa. Se no è finita. Decidiamo noi come viverci e come smettere di viverci e non pensiamo di non avere le risorse per farlo. E anche se fosse così, non servirebbe utilizzare i modi preimpacchettati da altri. Può essere che il sistema matrimoniale così com’è strutturato oggi, calzi a pennello per qualcuno, può essere anche (molto più raro) che calzi perfettamente per due persone che casualmente si sono anche innamorate. Ma non può andare bene per tutti. Evoluzione, dobbiamo evolverci. Non può essere che ancora oggi una donna non sposata dopo i 30 anni venga considerata come un cavallo zoppo e un uomo un puttaniere o un disadattato.
Fate attenzione quindi. Quando anche gli omosessuali cominceranno a desiderare di sposarsi perché i genitori di lei preferiscono così….sarà la fine, avranno raggiunto la considerazione sociale che volevano, ma saranno tristissimi.

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mercoledì 5 luglio 2006

God taxi driver


“Palazzo Chigi grazie”
“Via o piazza?…..anvedi er primo ministro! Ch’è successo, ha bucato? Io ho sempre votato a sinistra dotto’, votato e guidato”
“E fa bene, finalmente, anche grazie al suo voto, l’Italia prenderà una svolta nuova”
“Eh me sa che la dovemo prenne pure noi la svolta nuova, qua è tutto bloccato per lo sciopero. Che vorrei fa’ pur’io, ma c’ho moglie e figli dotto’, un paio di giorni ho retto ma poi…”
“Ma baaaaastaaaa con queste manifestazioni scriteriate, dobbiamo essere uniti, fare tutti dei sacrifici per un paese migliore, dobbiamo svoltare insieme!”
“Eh c’ha ragione dotto’ ma lì è senso unico. Ma me aiuti a capì lei che ne sa. Io so un povero tassinaro e ce lo so di avere grosse lacune nella mia ignoranza. Quando che stavamo all’opposizione, ce spingevate a lottà per i nostri diritti. Tutti in piazza. C’avete imparato la lotta c’avete. Bei tempi quelli: c’erano gli ommini radare, ‘a fiat, i muccaroli. Se bloccavano strade, ferrovie, tirevamo l’ova alla scala. Pure tutte le canzoncelle nostre parlano de lotta, de proletariato, dei poveracci come me insomma. Mo’ che comannamo noi, com’è che l’unità me da der selvaggio? E pure a colori. E me sento dì da quelli di destra, mortacci loro, che faccio bene a scioperà, che quasi me fanno passà la voja. Ma io mica che cammino o sto fermo pe’ fa cadè i governi, io devo fa’ sta’ in piedi la famiglia.”
“Caro caronte dell’intreccio urbano, lei deve capire che l’attuale convergenza economica, compromessa dal tracotante quinquennio del regno di arcore, ci costringe a riqualificare il mercato del lavoro, stabilizzando gli indici, riequilibrando il pil e ricapitalizzando lo sgnap alla stregua del new deal di roosveltiana memoria creando così un circolo virtuoso che ci porterà dritti ai vertici dell’europeismo spinto o, al limite, a metà bisettrice”
“Io ho capito dotto’ ma lei che ha detto? Me scusi dotto’ ma co me deve parla’ all’amatriciana. Io sta faccenda delle liberalizzazioni l’ho pure capita. Ma proprio co noi dovevate comincià? Noi ce facciamo er culo a pallini sui nostri coprisedili in vimini e giriamo come trottole tra smogghe e pazzi criminali, il tutto pe’ qualche euro, mentre la benzina costa come n’abbonamento all’olimpico. Potevate comincià coi notari. Quelli se pijano migliaia de euri pe’ leggerti ad alta voce un foglio che hai scritto te e pe’ l’inchiostro della mont blanc che serve pe’ ‘na firma. Senza offesa ce mancherebbe. Tutta gente che hanno studiato, se so ammazzati su i libri e, tutto il rispetto, hanno fatto pure la fatica d’esse fiji de n’artro notaro. Però quelli er problema de mannà i fiji a scuola magnati e vestiti mica ce l’hanno. E noi de sinistra non c’avevamo a core i proletari? Poi n’amico mio emigrato dice che in america chiunque po’ fa er notaro. Basta ave’ du timbri e se c’hai bisogno co qualche dollaro te certificano pure le chiappe. E se te serve na partita iva pe’ lavorà in mezza giornata te la fanno come niente.”
“Vede, fiero traslocatore di unità carbonio e valige, noi qualcosa dobbiamo pur fare. E’ un pezzo ormai che siamo al governo e qualcuno comincia a sospettare che nelle ottomila pagine di programma della legislatura ci sia scritto solo parlare male del governo precedente. Sa, tipo shining no? Lei ha ragione, ma i notai, proprio per i motivi da lei così esaurientemente esposti, sono gente potente, non è che posso arrivare io con la mia inflessione da prete di campagna e pestare piedi come nulla fosse. Ci sarebbero i giornalisti certo, il loro ordine a tutto serve tranne che a tutelare i cittadini, ma quelli sono pericolosi, ti prendono e ti tritano come un macinato prima che tu possa accorgertene. Provi a chiederlo al padre del piccolo Tommaso.”
“La capisco dotto’ lei è un poveraccio come me. Guardi le fermo pure er tassametro prima, ma non dite più che semo selvaggi.”
“La ringrazio per la sua comprensione”
“Semo arrivati”
“Ah”
“So 35 euri”
“Tenga e grazie ancora”
“Ecco il resto dotto’”
“Carissimo conducente, deve essersi sbagliato, io le ho dato 100 euro e lo so bene, l’ho inventato io l’euro”
“No guardi dottò, so queste le sue 50 euro, dev’essere un po’ stressato dotto’”
“Forse hai ragione, va be’, dio t’assista”
“Anvedi, mo' i primi ministri biastemano pure”

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martedì 4 luglio 2006

La scuola dell'orrido


Mio nipote è un disadattato sociale. Questo almeno risulta dall’attenta valutazione di insegnanti di scuola media inferiore che avrebbero inorgoglito la Montessori, estasiato Rosseau, ma che per motivi di prossimità si limitano a sfrangere gli ammennicoli di poveri genitori già ingolgotiti dal cercare di educare bambini in una società in cui il modello di riferimento è lara croft e già distratti dal tentativo di non farsi ammazzare a sprangate dal frutto del loro ventre per degli euri sonanti.
Certo, devo ammettere, che, avendo un residuo organico del mio dna, fornitogli di sponda da mia sorella, nessuno spera che mio nipote diventi PR della baia imperiale. Non ci sono dubbi. Però il ragazzo è capacino. La pagella sbrillucica di voti talmente alti che sembra di vedere i giudici di gara alla fine dell’esibizione della Comaneci. Però la scuola deve educare. Questa frase che di per sé non ha alcun significato, si traduce nel mettere in fondo alle valutazioni di merito, una frasetta assemblata con poca fantasia e ancor meno voglia, che indichi quali carenze evolutive mostra il pargolo, senza ovviamente perdere tempo nell’indicare motivi e possibili soluzioni.
Mi immagino la professoressa sfortunata di turno che, vittima di un micidiale sorteggione in sala mensa, è costretta ad elaborare le frasette illuminanti.
All’inizio, l’esperta insegnante dall’aspetto gentile e dai modi no (ignara che le palline del sorteggione in sala mensa erano state preventivamente scaldate), si pone di fronte ai registri col cipiglio giusto. Ad Anselmi ci pensa bene, valuta i risvolti psicologici, la situazione familiare e compone un elaborato pertinente, conciso, completo…manco fosse una professoressa! A Bruzzi già le fumano le palle. I suoi colleghi sono già a casa e il suo parrucchiere non aspetta certo lei. Così comincia a vomitare frasi fatte come un distributore automatico. “si applica ma non ottiene risultati”. Che è? Un cerotto per smettere di fumare? Oppure “il ragazzo è piuttosto vivace” o “studia, ma senza costrutto”. Che ne sai tu con chi studia mio figlio??
A Caputi, la solerte docente straparla. Nella sua testa si susseguono pensieri di vaga chiarezza…”nell’amatriciana i pinoli non ci vanno….quest’estate voglio una vacanza esotica, appena esco di qui prenoto due settimane a Vetralla, quanto costa costa”. Così, nelle righe destinate ai suggerimenti per la famiglia, si vedono cose che voi umani eccetera eccetera.
Nello specifico, la sentenza per mio nipote recita “il bambino, PERO’ (immaginate l’eco), non ha ancora maturato un comportamento consono alla vita sociale”. Tiè beccati questo, la prossima volta prendi meno 8 e spacca qualche banco in testa al compagno. Ora, dovete sapere (no, non dovete ma ve lo dico lo stesso) che questo benedetto figliuolo ha davvero capacità che, a 11 anni, gli permetto di superare ampiamente l’estensione mentale di un Giurato o di una Marini a caso. Il problema (almeno così pare essere) è che vive in un mondo tutto suo, secondo la professoressa. La depositaria dell’istruzione dei nostri cuccioli, però (eco), non si è spinta troppo in là e l’appuntamento col parrucchiere le ha impedito di valutare il fatto che il giovanotto non vive in un suo mondo, semplicemente non vive in quello dei suoi coetanei. Questo spiacevolissimo inconveniente genetico, preclude al mio nipotino la possibilità di pestare ragazzini più piccoli, bestemmiare come un turcomanno, scimmiottare gli atteggiamenti più idioti degli adulti, dare fuoco a cavallette vive o branchizzarsi dietro qualche bullo figlio di bullone. Alcuni di questi atteggiamenti, secondo noti criminologi, accomunano l’infanzia di serial killer di successo, ma alla veteromaestra questo è sfuggito. E’ sfuggito probabilmente perché traslando queste consuetudini sociali, specchio di una maturità adattativa, si ritrova esattamente la realtà sociale in cui lei e i suoi colleghi si accapigliano per un sabato libero, sfogano astinenze sessuali su chi è in condizioni di subordinazione e danno fuoco a cavallette vive (certe abitudini sono dure a morire).
Io ho conosciuto molte persone dotate. Persone che hanno qualcosa in più, un guizzo, una scheggia di genialità. Tutte queste persone hanno una sola cosa in comune: da bambini si sono sentiti isolati, emarginati e soli. Questi bambini non vivevano in un loro mondo, perché un loro mondo non lo trovavano intorno a loro. Erano solo spaesati e più li guardavano come alieni, più si sentivano spaesati. Sento sempre dire che le cose devono cambiare, che bisogna fondare una nuova cultura sociale, ma se poi qualcuno non è standard, viene bollato come disadattato e considerato peggio dei violenti.
Non voglio fare un’analisi delle funzioni educative delle strutture scolastiche e dei metodi utilizzati, ma dobbiamo tutti sperare che quel disadattato di mio nipote non trovi la strada della socialità prevista dalla sua insegnante. Perché se un giorno gli taglierete per sbaglio la strada in macchina, vi basterà fare un cenno di scuse. Ma se alla guida di quell’auto ci troverete il suo compagno definito “simpaticamente vivace” dall’arguta professoressa in pensione, potete star certi di venire colpiti con vivaci criccate fino allo svenimento.

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