mercoledì 31 gennaio 2007

Godzilla nella nebbia


A forza di addormentarsi la sera e svegliarsi la mattina, capita che tra l'una e l'altra manovra si avverta una spinta a cambiare. E non mi riferisco ad alcuna attività che preveda l'impugnare un telecomando. Parlo piuttosto di reagire a una vecchiaia che si insinua nelle nostre vite. Non quella facilmente calcolabile conoscendo l'anno di nascita, ma quella che si nutre della nostra staticità. Non conta quanti anni hai, conta da quanto tempo sei fermo. Ultimamente mi sento vecchio e mi sembra che tutto ciò che mi riguarda sia vecchio. Come la mia segretaria, che è talmente vecchia che ha un diploma di pterodattilografa. In realtà non ho una segretaria, però è vecchia.
Per non parlare del mio vecchio cane. L'hanno abbandonato talmente tante volte in autostrada che gli hanno installato un telepass. Ok, non ho nemmeno un cane, ma se ce l'avessi sarebbe vecchio. Ecco magari mi piacerebbe avere una segretaria e un cane, magari che fossero due entità distinte e magari nemmeno vecchi, almeno la segretaria. Così potrei toglierle gli occhiali, sfilarle la matita che le tiene raccolti i capelli e potrei portarla fuori. Certo, andare in giro con una ipovedente spettinata non è il massimo, ma sempre meglio di un vecchio cane, almeno non devo raccogliere le sue feci. Ma per cambiare, per smettere di essere fermi, non basta fare altre cose o installare vista (per quanto la mia segretaria ne avrebbe bisogno). Serve un progetto, un'idea chiara, anche nebbiosa, ma mai confusa. Perché la confusione, parrà sbalorditivo, confonde, invece la nebbia aguzza la vista, come la settimana enigmistica. E se sei fortunato capiti pure in un tratto sperimentale dove ci sono dei pallini bianchi per terra e dei cartelli nascosti dalla nebbia che recitano “se vedi tre pallini vai a 90 all'ora, se ne vedi due vai a 50 se ne vedi uno era meglio che stavi a casa (o forse sei la segretaria di cruman)”. Poi la nebbia si dirada e trovi una grande insegna luminosa e minacciosa: due morti su tre per conteggio pallini.
Avere un progetto è importante, perché il cambiamento, il movimento, non deve essere una fuga dalla situazione in cui siamo, ma una rincorsa verso qualcosa di definito, nei contorni quantomeno.
Non sono una persona frenetica. Sono stato immobile, paziente (casa, malato) e ho atteso il successo. Non è successo. Ho anche atteso sulla sponda del fiume di veder passare il cadavere dei miei nemici. Ma i miei nemici vivono a valle e a meno di non essermi inimicato dei salmoni, sarà dura vederli passare. Questo per dire che ho saputo apprezzare il rimanere, perché senza consapevolezza non si può divenire e nel divenire, di consapevolezza se ne perde un po'. Però il rimanere è malmostoso. Ti porta a dire “ok rimango un altro po'” e quando ti accorgi che sei rimasto troppo hai solo due alternative: strapparti di dosso quella vegetazione che ha preso possesso di te (donandoti peraltro un aspetto rustico niente male) o essere talmente forte da muoverti portandoti dietro tutto ciò che riesce a rimanere attaccato. In realtà esiste una terza ipotesi: rimanere un altro po'.
Ci sono dei segni ben precisi, per accorgersi dell'incanutimento dell'animo. E l'animo canuto non somiglia per niente a George Clooney. Per esempio quando le parole che hai intorno ricordano le risate finte nei telefilm americani. Quelle cose che ti aspetti, che sono familiari, ma se ti fermi a pensarci capisci che era meglio non pensarci. O quando si identifica la sofferenza con il mancato realizzarsi dei propri desideri. Quando ti sembra che nella tua prossimità hai fatto tutto ciò che le tue risorse ti consentivano di fare e non sei ancora abbastanza stanco.
Allo scopo di intenderci meglio, chiarisco che qui non si tratta di cambiare se stessi o migliorare quelle cose di noi che non piacciono a Crepet. Per quello ci sono migliaia di riviste e libri che vi spiegano come diventare personcine a modo in 10 esercizi. Io ci ho provato, ho attaccato dei postit al frigorifero con scritto “sono una bella persona”, ma non ha funzionato. In compenso il mio frigorifero ha l'aria più tronfia del solito. Questi esercizi poi comprendono sempre una serie di gesti benevoli indirizzati agli altri, tipo sorridere a uno sconosciuto. All'inizio funge, poi sorridi a uno che ti guarda e dice “hai un cavolfiore tra i denti” e finisci sotto xanax. Il concetto stesso di benessere legato al rapporto con gli altri è una trappola mortale, perché gli altri sono una brutta bestia e il meccanismo dovrebbe essere invertito, cioè evolvere se stessi fino a rendere il rapporto con gli altri una realtà accettabile, ma anche non necessaria. In fondo per poche persone lo stare bene con gli altri non è perfettamente sovrapponibile con l'essere semplicemente abituati a loro.
Premesso questo, il muoversi di cui parlo potrebbe anche portarci verso lidi invisi al popolo bue. Tipo l'isolamento o la politica. L'importante è avere un confronto sano con la propria evoluzione, il che significa capire i tempi e le opportunità. Il tutto, possibilmente, prima di sterminare la famiglia o finire nel tunnel del bingo. Perché, come si diceva in qualche commento, non puoi salvare il mondo, ma puoi salvare te stesso e se sei bravo bravo, anche un paio di persone intorno a te.
Intanto ho comprato una tintura per l'animo e vado a dormire più tranquillo, con i miei mostri sotto il letto. Tanto non ci si può nascondere godzilla, ho un futon, male che vada ci sarà l'uomo sottiletta.

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lunedì 29 gennaio 2007

Inchieste shocke


Sono venuto in possesso di un fascicolo che scotta. Un coraggioso giornalista, uno di quelli che rispettano il proprio mestiere, di cui si parla solo componendo un epitaffio di fronte alla sua salma - e si sa, la salma è la virtù dei morti – e che conosce di persona i congiuntivi (ragion per cui in televisione proprio non ce lo vogliono), mi ha fatto avere un plico contenente un dossier da far impallidire Mitrokhin, Pelican e gola profonda (quella di Nixon non quella di Clinton). Allegato alla sbalorditiva documentazione c'era una lettera che riporto integralmente:
“Vecchia spugna (il giornalista è bravo ma un tantino colloquiale, ndr), ho pensato a lungo a chi potesse essere il degno destinatario di questa mia, ma anni di lavoro indefesso, coerente e non assoggettato ai poteri forti, mi hanno lasciato ben pochi amici e tra questi, tu sei l'unico rimasto che possa guardare i fiori dal lato profumato. Non voglio mancarti di rispetto, ma è una consapevolezza di cui risento un po'. Comunque non posso che riporre nelle tue mani il frutto della mia ultima inchiesta da infiltrato. Sarà poi tua discrezione, l'utilizzo che ne farai, solo non rendere pubblica questa lettera (così impara a chiamarmi vecchia spugna tiè, ndr).
Il reportage testimonia, con prove inconfutabili, quello che avviene all'interno di una struttura di servizi pubblici di una grande città italiana. In questi uffici ho incontrato persone umili, efficienti e gentili. Sì, ho detto gentili, credimi Cruman, te lo giuro sul canguro. Ho finto di essere un utente qualsiasi, nipote di nessuno e amico di nessun altro. Ebbene, amico mio, non voglio spingerti a riattaccarti alla bottiglia (insiste eh, ndr), ma sono stato ascoltato e ho le prove che un dipendente, senza annusare alcun tornaconto personale, è andato oltre i suoi doveri per venire incontro alle mie necessità, per il semplice motivo che aveva modo di farlo. Gli uffici erano puliti, nonostante gli inservienti fossero esseri umani (ne ho inciso uno con un taglierino per accertarmene) per il semplice fatto che le persone avevano cura degli ambienti e delle risorse di cui disponevano. E garantisco che nessuna di queste risorse apparteneva loro. Nel dossier c'è tutto, nomi e cognomi, foto, registrazioni e testimonianze firmate. Tieniti forte Cru (cru??? ndr), c'è anche un video ripreso di nascosto nel bar della struttura, in cui si distingue chiaramente l'addetto alle libagioni ringraziarmi solo perché gli avevo pagato il caffè, da me consumato senza l'espressione di chi avverte tutto il tormento interiore dei baristi. Lo so, sono rivelazioni forti e non ti ho detto tutto. Ho visto uomini che di fronte a un problema si sono adoperati per trovare una soluzione dimenticandosi completamente di lamentarsi. Ho visto donne prendersi la colpa di un errore sebbene disponessero di un intero gregge di capri espiatori. E pensare che dopo le navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione, pensavo di avere visto tutto. Ora ti lascio, ho la seduta dallo psicanalista da cui sono in cura. Lui pensa che tu non esisti, che sei un frutto della mia immaginazione. L'ho quasi convinto che si sbaglia, ora però ha dei dubbi sul fatto che esista realmente io. Credo che al saldo della fattura avrà le idee più chiare. Ciao ciccio, abbi cura di te e del frutto del mio lavoro, anche se le due cose non hanno molte speranze di coesistere.”
Questa toccante lettera (dopo il finale sono toccante un po' anche io, participio non aggettivo) mi ha messo in una condizione difficile e un giorno deciderò se indicare nel mio testamento biologico il luogo dove ho inumato la documentazione del mio caro amico. Frattanto vedo scorrere a rotazione una serie impressionante di inchieste shock che in qualche modo pongono l'accento sulla grave lacuna della lingua italiana, priva di un corrispettivo di “shock”. Ciò che più gli si avvicina pare essere “sciocco”, ma è probabilmente un caso di sfortuna incidentale. Grazie a queste inchieste sappiamo in che condizioni sono molti ospedali italiani. Sappiamo che nei palazzi di giustizia vige un disordine costituito, che esistono uffici postali con consegne posticce, che nei centri di prima accoglienza vagano anime dannate raramente confortate da arti angelici, e via discorrendo. E spesso, gli organi competenti arrivano ad occuparsene per un mese intero.
Il lavoro di chi ha realizzato questi reportage è senz'altro meritevole e il quarto d'ora di celebrità conseguente ne è la prova. Ma a questa stregua io, povero bloggatore dalle emozioni distorte, potrei farne mille senza spostarmi dai confini del mio paesello e senza bisogno di infiltrarmi. Potrei affastellare dossier sulle mie esperienze (che sono esperienze di molti) con i vigili urbani, il catasto, il commerciante sotto casa e persino con le organizzazioni umanitarie. Le inchieste shock purtroppo non shockano nessuno. Perché in un ospedale almeno una volta ci siamo stati tutti, così come in un ufficio postale. Chi non ci si è trovato e ha a cuore lo stato di salute della propria società, ne è informato, a tutti gli altri non interessa comunque e sono più shockati dal fatto che Lapo preferisca l'anziana ambiguità a Martina Stella. Tutte queste inchieste che sono di moda, ma nuove non sono, hanno in comune la conclusione secondo la quale sussisterebbe una carenza di controllo e/o un'insufficienza delle risorse. La questione controllo è capziosa, qualsiasi cosa significhi. Perché il controllo deve riguardare l'ottimizzazione della gestione del lavoro, non la negligenza o, peggio ancora, la criminalità. Perché altrimenti non è più un problema di controllo ma di cultura sociale. E questa è la vera notizia shock: siamo generalmente incivili. Nei comportamenti di ogni giorno, ci sentiamo giustificati nel trasgredire o nell'agire egoisticamente, dalla concezione che il costume è comune o dal fatto che conosciamo uno che fa cose ben peggiori.
La questione risorse è verosimile (anche se spesso le risorse mancano perché qualcuno se l'è fregate), ma a quanto pare queste risorse non sono mai insufficienti per mettere in piedi sistemi paralleli di clientelismo e accaparramento di tornaconti personali o per l'affermazione di sé e delle proprie repressioni da collezione. Sarebbe anche da dire che esistono civiltà che se la cavano con risorse più esigue, civiltà che, ahimè, sono evidentemente più evolute.
Se ci si orienta solo verso l'inasprimento dei controlli e delle sanzioni, ci gusteremo inchieste sempre più eclatanti e sempre meno shockanti. Prima di tutto occorre dirsi intorno che non siamo tutti bravi e belli solo perché abbiamo millenni di storia, anzi. Poi i problemi vanno affrontati alla base, quindi indirizzare gli sforzi verso un'educazione della cultura civile, prima personale, poi di prossimità e infine sociale.
Aumentando i controlli si arriva a un ordine poliziesco, sistema sperimentato spesso e volentieri e fallito altrettanto spesso e poco volentieri. Gli ultimi tentativi a livello culturale si perdono nelle lezioni di storia di quadrimestri dimenticati. E così sentiamo chiunque sia munito di facoltà espressive indignarsi, per esempio, per l'esoso tributo di vite umane che la strada esige. Per questo motivo, ormai, se prendi una multa devi venderti la macchina, ma non ho MAI visto in televisione in una fascia ad alto audience, spiegare a reti unificate come si guida in autostrada (e molte persone ritengono non sia necessario saperlo, essendo munite di patente) e soprattutto rendere di dominio pubblico che chi viaggia in mezzo alla strada o chi ha bisogno che dove finiscono le sue dita debba in qualche modo cominciare una leva lampeggiante, ha seri problemi erettili. Eppure decine di migliaia di morti l'anno dovrebbero essere un buon motivo, credo almeno migliore di quelli che fanno mettere in onda Buona Domenica In.
Se poi dovesse fallire anche questo, allora ammetterò il mio errore di valutazione, ma la mancanza di altre speranze, a quel punto, dovrà renderci consapevoli che la civiltà non è cosa per noi e che vale la pena muoversi in branchi e costruire palafitte.

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giovedì 25 gennaio 2007

Corso di pornoeconomia applicata


Vi siete mai chiesti se il vostro sventrasardine a pedali sia davvero l'utensile più acconcio a sviscerare il simpatico pescetto? O se esista un sistema per fare una risonanza magnetica senza infilarsi in un sommergibile riadattato che, se tutto va bene, vi sputerà fuori dopo 45 minuti passati a imitare una statua di cera, con la piacevole notizia che dovete ripetere l'esame perché avete mosso un pelo del naso? O se la gente che ci governa sia il miglior esemplare di “la gente” di cui disponiamo?
Non voglio discettare dell'antico dilemma sul migliore dei mondi possibili (comunque se si potesse scegliere io lo vorrei più simile a Cappelle sul Tavo), ma dare una spolverata a quei meccanismi, su cui spesso ci inganniamo, che portano l'evoluzione sociale e tecnologica su strade a volte bislacche a volte improbabili.
Prendiamo il videoregistratore (in senso metaforico, mettete giù quel coso). Invenzione geniale, sulla carta, ma siamo onesti, che benefici ne abbiamo ottenuto? Un orologio digitale che lampeggia vita natural durante, manco fosse alimentato a plutonio, con uno scostamento costante sull'ora effettiva superiore alle 4 ore. Vi consente di registrare un film che la legge vi impedisce di registrare. Operazione che riuscite a fare solo se il film lo guardate anche (quindi rendendo inutili i vostri sforzi), perché se provate a uscire o a cambiare canale, vi ritroverete sul supporto VHS mezz'ora di televendita del materasso che diventa cucina, venti minuti di cinescopio, trenta secondi di righe (sotto le quali si intravede il film che vi interessava) e dieci minuti di una puntata di protestantesimo non ancora messa in onda (e che prostestantesimo sia messa in onda è degno di nota). E la cassetta era quella del vostro matrimonio. Unico esemplare rimasto. Per fortuna esistono i videonoleggi, dove scegliere un bel prodotto cinematografico e portarsi a casa una cassetta che dovrete riavvolgere in un quarto d'ora di inquietanti cigolii e rumori di meccanica sotto sforzo. Sul finale della pellicola il nastro prenderà possesso delle vostre apparecchiature multimediali e, nel tentativo di dipanare la matassa filmica, finirete avvolti come un bozzolo in metri di materiale plastico altamente infiammabile.
Il VHS non era il migliore dei sistemi home video possibili. C'era il Betamax. Supporto qualitativamente superiore, ideato dalla Sony. Purtroppo l'industria del porno, che non si può dire, ma occupa la gran parte del mercato dell'home video (e anche di internet), decise di affidarsi al VHS, condannando la Sony, per rimanere in tema, a prendersela in quel posto e tutti noi ad utilizzare tecnologia scadente.
La storia si ripete con l'avvento dell'alta definizione (HD per le pers. che grad. le sig.). Avvento che ha rischiato di non avventare sempre a causa del mondo del porno, perché va bene il piacevole (mai aggettivo ci azzeccò meglio) effetto di sentirsi parte dell'azione, ma l'eccessiva definizione mette in risalto anche i minimi difetti. Controindicazione amplificata dal fatto che nei film porno si fa un uso smodato di primi piani piuttosto stretti (almeno così ho sentito dire). Fortunatamente qualcuno ha pensato che, forse, lo spettatore medio, plausibilmente intento a disperdere il seme, non subirà un calo della libido alla vista di un inestetismo da epilazione che fa capoccetta in un piano americano.
Superato questo scoglio, si presenta una nuova battaglia tecnologica tra il Blu-Ray della Sony (che ancora ha problemi a sedersi) e l'HD-DVD. Pare che anche questa volta il colosso giapponese avrà la peggio, non per demeriti qualitativi, ma per la scelta che l'industria del sesso da intrattenimento si appresta a fare.
Voi magari guardate solo i film di Eisenstein e “Il grande silenzio” (piuttosto qualcuno mi spiega perché nella locandina di questo film c'è scritto “audio Dolby Surround”?), ma sappiate che il prossimo lettore HD-DVD che il mercato vi obbligherà a scegliere, gronda morbosità e voluttuosa perversione da tutti i chip.
Tornando al discorso risonanza magnetica, posso dirvi che in ambito militare, nella ricerca sui rilevatori di materiali nascosti o sotterrati, uno scienziato italiano ha messo a punto una macchina per la risonanza grande come uno scanner manuale, ma soprattutto che si utilizza come uno scanner manuale e da risultati più precisi dei catafalchi in cui ci inùmano (accento a scelta) nei nosocomi di tutto il mondo. Non posso citarvi l'autorevole fonte di questa informazione e nemmeno i motivi per cui questa notevole invenzione giaccia inutilizzata o semplicemente riservata a quelli che giocano a fare la guerra, spinti dalla depressione generata dal raffronto tra la propria mascolinità e gli attori dei film alta definizione a cui accennavo pocanzi. Ne va della mia salute, già di per sé non sbrilluccicante.
Sesso, soldi, guerra... per quanto possiamo sentirci avulsi da questi meccanismi, sono ancora i giocattoli più accattivanti per il bambinone uomo. Così finiamo a spendere soldi per comprare un accrocchio multimediale, retaggio del mercimonio del sesso che ci permetterà di guardare immagini di guerre e distruzioni. Vi ho rallegrato la giornata?
Consolatevi: la prossima volta che scomoderete divinità arcaiche accostandole ad aggettivi poco edificanti perché la lavastoviglie si è mangiata l'ennesimo bicchiere in cristallo soffiato viennese o la lavatrice ha ormai un intero guardaroba firmato tra le spire del cestello...non dovrete più chiedervi il motivo per cui costruiscano simili diavolerie e le mettano sul mercato. Ora sapete che oscure trame pecuniosessuali hanno fatto sì che ciò di cui disponiamo non sia esattamente la migliore soluzione ai problemi che tentiamo di risolvere.
Unica eccezione: spesso, se uno è idiota, non c'è un mandante con cui prendersela.

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martedì 23 gennaio 2007

Medici in prima serata


Il mio nome è Bellomo. John Fitzgerald Bellomo. Sono un dottore. In medicina, per i più pignoli. Mi sono laureato a Harward ed ho conseguito un master in malattie rare, uno in gestione di pronto soccorso e uno in tecniche di sutura all'uncinetto.
La mia professione non è curare i malati e nemmeno cercare la cura del secolo, come il siero antipapera influenzata, la pillola modellaculo o il profumaflatulenze. No, io faccio il consulente. Lavoro per tutte quelle produzioni televisive che vi vomitano in casa truculente storie di trincea ospedaliera incorniciate in affascinanti acconciature brizzolate. Come potete immaginare nessuno tra attori, registi, produttori e telemaestranza saprebbe che cosa fare con uno sfigmomanometro in mano e probabilmente non riuscirebbe nemmeno a rimanere serio pensando al suo nome.
Qui intervengo io. Suggerisco i casi più interessanti e il modo più acrobatico per risolverli. Fornisco tutti i termini più sexy da snocciolare all'occorrenza e specifico quanti cc di quellacosamiracolosa servono per salvare la pelle all'ingrato di turno.
Ammetto che mi è andata bene. Avrei potuto passare la vita a impazzire in mezzo alla sofferenza della gente e agli assalti di avvocati da combattimento. Il destino mi ha risparmiato questa realtà fatta di paure, incompetenze, senso di impotenza e altre mostruosità tipo case farmaceutiche e ministeri della sanità. Così l'altro giorno riordinando il mio scantinato ho ritrovato la mia coscienza e visto che era nuova nuova ho avuto voglia di usarla per spiegare un paio di cose a chi smette di vedere ER per seguire Gray's Anatomy al termine del quale pare ovvio interessarsi al Dr.House per poi finire intagliando membra a Nip/Tuck e sperando che Huff abbia trovato qualcosa di nuovo o finisce che si annoiano persino gli ipocondriaci.
È importante non orientarsi su aspettative troppo hollywoodiane nel malaugurato caso di trovarsi nell'urgenza di cure mediche. Non è detto che l'autista dell'ambulanza somigli a Cary Grant e sia in grado di praticarvi una manovra di Valsalva stando appeso per i piedi, anzi nella realtà può anche essere che sbagli manovra e vi investa e per sopramercato somigli pure a Marty Feldman. Giunti al Pronto Soccorso è plausibile che non ci sarà un poliziotto a spingere di corsa la barella urlando “maschio, 35 anni, trauma toracico, bradicardico, praticato massaggio carotideo” ma piuttosto un tizio che biascica un “ahò, sto tizio ha 'nfrociato caa' machina” ed è più probabile che in risposta non avrete un “Presto 10 cc di lidocaina (che forse è droga spacciata in spiaggia), intubiamolo e prepariamo la sala 2” ma piuttosto un “occhei appoggialo là”.
È inoltre vieppiù remota la possibilità che, in seguito a TAC (i puristi direbbero TC visto che non è più assiale), RM e carotaggio del retto che hanno portato alla diagnosi “fa solo i capricci”, compaia dal nulla un'infermiera diplomata alla Playboy University College che vi lancia un'occhiata più a proprio agio in una discoteca che in una corsia d'ospedale e ipotizza un eritroderma ittiosiforme congenito bolloso, cavandovi dai guai.
Un'altra controindicazione che nei bugiardini dei telefilm non è riportata è la sindrome da “quella ce l'ho di sicuro”. L'ipocondria indotta, l'associazione di sintomi personali a quelli del malato immaginato e financo la comparsa di dolori sospetti durante i titoli di coda o persino in corrispondenza della pubblicità (che vi segnala un nuovo serial incerottato). Guardatevi bene dunque dallo strisciare fino allo studio del medico di famiglia e dichiarare con voce sofferente “dottore temo di avere la ciclite eterocromica di Fuch, ho tutti i sintomi”, perché tutto ciò che il paziente medico potrà dirvi è “non ho la minima idea di che cosa stia parlando, ma uscendo si copra bene perché ha un brutto raffreddore”.
Insomma la realtà è sempre qualcosa di diverso e se cerchi di affrontarla si trasforma in qualcos'altro. Ci sono medici che sanno di non poter curare le malattie, ma solo prendersi cura delle persone e lo fanno sacrificando del proprio. Altri che trattano i pazienti con l'idea che se stanno male si vede che se lo meritano, perché sono inaciditi da troppo orrore, da troppi problemi o solo perché hanno deciso di nascere stupidi.
Se c'è qualcosa della realtà che è possibile e utile adattare alla finzione filmica forse è proprio il rapporto tra chi chiede aiuto e chi può darlo, che (senza bisogno di diventare “sessuale” come spesso accade in tv) dovrebbe essere impostato su canoni diversi. Non dico umani, perché rimanere umani in condizioni disumane è inumano, ma di collaborazione e comprensione reciproca. Senza esagerare, non pretendo molto: diciamo qualcosa di più di “come si sente? Ci vediamo domattina, se ci arriva”. Ma per arrivare a questo occorre anche una diversa educazione all'essere malato e in questo i telefilm che collaboro a creare non aiutano. Quindi, prima di riporre la coscienza nello scantinato, vi do un ultimo consiglio: guardate questi programmi con la consapevolezza della finzione che li caratterizza, sapendo che sono costruiti, finti e improbabili come, chessò, Amici di Maria De Filippi o il Tg4. Altrimenti è meglio che seguiate il grande fratello: male che vada vi immedesimerete in Taricone, ma è sempre meglio che immedesimarsi in una atrofia dentato rubropallidoluysiana... o no?

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venerdì 19 gennaio 2007

Appuntamento al buio


Io non sono uno di quegli intellettuali di circostanza che coprono di eleganti insulti gli ambienti apparentemente frivoli del divertimento di classe, solo perché sono stati rimbalzati all’ingresso del Billionaire. Eggrazie, direte voi, non essendo alcun tipo di intellettuale mi riesce facile. Quando avete ragione, avete ragione, non ci sono cazzi. Però proprio una brutta figura non la faccio dato che conosco il significato di qualche parola oltre al mio nome e ai gusti del gelato. Nonostante questo, non passo il tempo a condividere l’opinione secondo la quale le ragazze molto avvenenti (quindi particolarmente portate ad evitarmi) siano solo dei contenitori vuoti. A volte una confezione giustifica di per sé la propria vacuità. Insomma non giudico male chi non sa che cosa faccia un palafreniere, ma sa dove trovare il miglior aperitivo di Milano. Anzi. Dissimulo invidia ostentando rispetto. Ad esempio: ricordate la pupa che alla domanda “quanti abitanti ha l’Italia” rispose “compreso i paesini?”. Ebbene, io ho letto Proust e Pascal, ho guardato le figure dei libri di Kierkegaard, ho studiato Einsten e ascoltato Bach, ma una simile genialità accostata a cotanto stacco di cosce, mi era ignota. Non ho quella frase tatuata sulla schiena solo perché quel giorno il mio personal tatuator era in Tibet a cercare non so bene che cosa.
Dolendomi del fatto che il mio rispetto non è contraccambiato, che il mio animo leggermente asociale (tanto che per farmi uscire di casa ed entrare in un locale ci vuole un esorcismo) è visto con orrore e ribrezzo dalla gente cool, mi sono deciso a fare un gesto di avvicinamento verso la parte di mondo che sa sempre dove andare e soprattutto con chi andarci.
Approfittando di un’amicizia ben inserita nel giro che conta, ho organizzato questo appuntamento al buio (buio è un ex bisca per pokeristi trasformata in locale fico), comprensiva di tour itinerante semi alcolico e similvelina per aumentare il mio sintomatico fascino. Giunto a casa della mia personalissima soubrette di riferimento non ho potuto esimermi dal notare le dimensioni della di lei magione. Era talmente grande che all’ultimo piano c’era una base Nato, con relativa portaerei ormeggiata in piscina. Mi sono fatto indicare il bagno, ma alla seconda rotonda mi sono perso e ho dovuto chiedere. Salito in macchina (la sua, io ero lì in metropolitana), che era grande come il mio appartamento, ho avuto lo stimolo di chiederle dove si trovasse il bagno, visto che il mio primo tentativo era fallito.
Il locale era carino, buio, ma carino. Pieno di gente consapevole della propria presenza tridimensionale. Io non ero in gran forma (mi si è rotto l’AB King) e in mezzo a quei baldi omaccioni con gli addominali che si vedevano anche attraverso un maglione di lana (D&G) mi sentivo un po’ inadeguato. Mentre la mia compagna di viaggio sorseggiava qualcosa con un nome che non ti aspetti e un colore che non esiste in natura, io mi guardavo intorno pensando a dove potesse essere un bagno e che forse era ora di farsi vedere da un urologo. Sia chiaro, non è che non fossi di compagnia, era lei che parlava con qualsiasi cosa avesse un paio di scarpe firmate e dei capelli che getterebbero nel panico un gatto cieco. Era tutta un baci e saluti. Tre baci sulla guancia se maschio, uno per finta se è donna, uno in bocca se è maschio gay o femmina maiala… credo fosse questo il codice. E dopo un florilegio di complimenti e pettegolezzi il commiato si realizzava attraverso un numero incalcolabile di “ciao” emessi alla velocità della luce, che scemavano come una cosa inutile scema.
In uno sfortunato momento di quiete ci siamo guardati come si guarda uno che non ti fa scendere dalla metro perché vuole salire velocemente e sedersi. I suoi jeans sdruciti ultimo grido somigliavano molto al mio umore (sia per lo sdrucito che per il grido), mentre il mio dolcevita fuorimoda si intonava con la sua innocenza.
Lo ammetto, io sono un tipetto complicato, ma in quella situazione il pesce fuor d’acqua ero io e vi assicuro che non è punto facile. Non ci giurerei, ma sono quasi certo di aver ordinato del prosciutto di Prada, per darmi un tono. Fortunatamente ce l’avevano. In quel magico istante, io e lei, divisi solo da un insaccato fashion victim, ci siamo sentiti quasi vicini, uniti da qualcosa, come Gianni Minà e Maradona, come Teofilo Stevenson e Compay Segundo.
Ma panta rei (se ne fossi capace) e la conversazione aveva risvolti meno interessanti di quelli dei suoi pantaloni, che la coprivano dalle ginocchia al passaporto per l’inferno. Erano però i discorsi giusti, la gente giusta, un divertimento vero. Tutta quella gente si sentiva nel proprio habitat. Sorridevano tutti, anche quelle belle che hai sempre pensato fossero incazzate per contratto. Non c’era nemmeno un cafone con la felpa nei jeans o un musone da rimorchio con la sua colonna d’ordinanza e bicchiere di cherosene in mano. Non li disprezzavo affatto. Disprezzavo me, che so coniugare al participio passato il verbo esigere, ma non so stare in un posto senza desiderare di trovarmi in qualsiasi altro.
A fine serata la mia dama di compagnia ballava su un tavolo facendo la sua porca figura. Io no. Il tavolino in cui ero relegato (come un sovrano in catene) ballava già di suo. Non me la sono sentita di strafare.
Tutto sommato sono soddisfatto dell’esperienza. Sto cercando di ridurre il livello del mio astio verso il genere umano o di giustificarlo ulteriormente. Ma ora mi sento più consapevole del mio isolamento. Ho un disprezzo non distruttivo. Non cerco di eliminare ma di evitare, con naturalezza. Vorrei che anche gli altri facessero così con me. Quelli dell’happy hour o di un centro sociale; vorrei che mi concedessero il lusso di non avere ore felici o di non lottare per ideali politici all’ombra di una canna. Credo sia un passo importante. Ora tutti si disprezzano e tentano di distruggersi giudicandosi vicendevolmente dei cancri da estirpare. Se cominciassimo a limitarci al disprezzo sarebbe un mondo migliore.

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martedì 16 gennaio 2007

L'erba del vicino

A volte è necessario fare un viaggio. Anche piccolo, ma che ti porti di fronte alla realtà. Perché in certi casi non basta sapere, bisogna vedere, toccare, bisogna che la realtà sappia che ci sono anche io. Per questo sono in macchina ora (ok, non ora, ma faccio finta di sì che sembro narrativo e non impazzisco a coniugare verbi), sto andando a Erba. Voglio andare a vedere da vicino tutte quelle persone che si accalcano nel luogo in cui è transitato l’orrore, dove la morte ha lasciato fare l’uomo, ma soprattutto dove almeno tre network nazionali hanno piazzato telecamere e microfoni. Voglio vedere queste persone in faccia, parlarci, capire.
Non sto giudicando nessuno, sia chiaro, in fondo anche io sto andando ad assistere a ciò che mi fa orrore e che fatico a comprendere. E non mi sono nemmeno pettinato.
La giornata promette male. Oggi proprio non mi riesce di capire niente: è tutto un po’ confuso. Il giornale radio, dopo avermi finalmente chiarito da quale fruttivendolo si serviva l’assassina di Erba, dichiara soddisfatto che il petrolio è sceso fino a 53 dollari al barilotto. Non esito un secondo, incocco la freccia e mi infilo al distributore. La benzina costa esattamente come quando il petrolio era a 73 dollari e il benzinaro non è nemmeno 20 dollari più gentile. Intasco il resto e un ringhio parecchio distante da “grazie a lei, buona giornata”, ma che accolgo come tale. Riparto, verso qualcosa che non capisco, proveniendo dallo stesso posto.
La radio continua a cercare di spiegarmi le cose. La radio è brava, lo ammetto, sono io che sono duro. I dettagli sul distaccamento della testa dell’ultimo condannato nel processo a Saddam, pare siano irrinunciabili se si vuole avere una giusta prospettiva sul panorama internazionale, come se un'impiccagione senza decapitazione fosse più accettabile. I particolari macabri sono sempre accompagnati da grande indignazione e raccapriccio per una sì barbara applicazione della giustizia. Vengo anche a sapere che le multe per infrazione al codice della strada sono state ulteriormente inasprite, allo scopo, pare, di ridurre il numero degli incidenti. Lo speaker ne dà notizia come se qualcuno ci credesse. Per sopperire alla mancanza di cultura e civiltà si inaspriscono le sanzioni. Ci va anche bene che la pena capitale non rimpingua alcuna cassa (se non quelle da morto) altrimenti, seguendo questa logica si finisce appesi per i pollici. Spengo la radio. E’ meglio.
Torno all’oggetto del mio viaggio. Ho pensieri strani, di alcuni mi vergogno, altri proprio non li conosco. Non so come mi sia venuto in mente che da oggi “l’erba del vicino…” assumerà un aspetto inusuale grazie a un macabro calambour. Poi penso a quel discorso che ormai si sente troppo spesso. Alle regole dei senza regole. Al codice che vige in carcere e fuori, tra quelli che hanno sfidato la società e colpito i propri simili. L’ha ripetuto Azouz: le donne e i bambini non si toccano e gli infami non si accettano. Fa un effetto strano, a metà tra un libro di Puzo e un film con Stallone. Ma essere scosso da qualcosa non corrisponde a capirla. Ci provo. Perché? Ovvio, direbbe uno che capisce, perché sono creature indifese. A parte il fatto che Rosa Angela Bazzi, che pare sia una donna, proprio indifesa indifesa non deve essere sembrata mentre roteava un machete, ma come ci si potrà vendicare di lei senza contravvenire al codice appena citato? Considero questo solo un problema di logica linguistica e vado oltre. Come si configura il concetto di indifeso? Se tre killer attendono sotto casa un uomo disarmato e lo crivellano di colpi alle spalle, il fatto di essere un uomo lo rende più protetto dalle pallottole? Se un assassino mette una bomba sulla macchina della sua vittima che cosa può cambiare a livello di “difendibilità” se su quella macchina c’è una donna, un bimbo o un uomo? Che l’ambiente della malavita trovi inaccettabile colpire donne e bambini, porta alla sbalorditiva conseguenza di trovare “accettabile” colpire un uomo. Se poi quest’uomo si sia potuto difendere o no, sembra irrilevante. Se vado a farmi operare di girodito e quando torno trovo la mia casa occupata da criminali e lo stato non mi tutela, che modo ho di difendermi? Se rincasando dalle mie vacanze esotiche a Vetralla trovo l’appartamento svaligiato, che possibilità ho avuto di difendermi? Questo codice d’onore giustifica in qualche modo mille altri disonori. Come se la sofferenza di un uomo anziano fosse meno rilevante di quella di una giovane donna. Ma soprattutto giustifica una cultura da far west, in cui un uomo può comunque starsene in casa armato fino ai denti a difendere i propri cari. Forse in questa logica, chi ha paura, chi non sa difendersi, non è un uomo. E il codice della paura trova il suo senso.
Niente, forse è meglio che torni a pensare al prezzo del petrolio. Anche se ormai sono arrivato. C’è una forte “infiammazione” attorno al luogo della strage che è irrorato da curiosità e cellule di sgomento. Sembra di essere nel punto in cui si è sviluppato un tumore, un cancro della città. Collettivo. I carabinieri sono costretti a presiedere il posto a causa della massiccia quanto inutile processione. Questo mi fa per un attimo trovare accettabile il fatto che ogni domenica le forze dell’ordine debbano tenere a bada orde di tifosi. Almeno consentono lo svolgersi di uno sport e non di mettere in scena la fiera delle morbosità.
La gente osserva, commenta, si aggiorna sugli ultimi dettagli e se proprio non ce ne sono altri, qualcosa si può sempre inventare. Qualcuno fotografa il nulla per catturare una scia di orrore, impressionando la pellicola e me. Forse è un gesto catartico, qualsiasi cosa voglia dire. Lo faccio anche io. Fotografo questa piccola folla che, come me, è mossa da qualcosa che non comprende. Una folla che ha paura e fa paura. Torno a casa senza niente in mano (ho seguito alla lettera le indicazioni della mia fotocamera usa e getta) e un po’ scoraggiato, nella consapevolezza che essere gentile e rispettoso non fa molta differenza perché la gente sono matti.


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domenica 14 gennaio 2007

Ausonio & Esperio #9






















Soggetto e sceneggiatura: Cruman
Grafica digitale e rendering: Bubi

venerdì 12 gennaio 2007

Chi ha paura dei blogger?


Fare il giornalista è un mestiere infame. Lo so, tra le pagine di questo blogo mi è capitato di muovere qualche vibrata critica verso la categoria e verso il relativo albo professionale, ma se non ci si sofferma su episodi specifici e si getta uno sguardo obiettivo sulla situazione dell’informazione in Italia, bisogna ammettere che il giornalista fa una vita grama. Certo non come i cercatori di opale sotto il deserto di Coober Pedy e nemmeno come l’opinionista Paolo Del Debbio, ma per i nostri rappresentanti dell’informazione di massa è davvero dura. Non deve essere facile prendere una notizia e sviscerarla sapendo che:

  • La proprietà del giornale ha come mission aziendale quella di vendere più copie possibili
  • Per essere parte integrante della mission aziendale (leggasi non essere sbattuti ai necrologi) bisogna soddisfare le esigenze del cliente finale. Solitamente questo corrisponde ad arredare la notizia con sesso, sangue, morbosità, sospetti, gossip o distruzione di cose e personaggi universalmente noti. Operazione piuttosto complessa se si sta disquisendo del fattore di rischio delle strategie commerciali nei rapporti con i nuovi mercati orientali.
  • Per garantire il proprio apporto al core business aziendale (leggasi non essere sbattuto agli annunci matrimoniali), occorre prestare attenzione ai piedi che si calpestano. Per una serie di ragioni economiche, politiche, sessuali e di mantenimento della propria integrità fisica, alcuni argomenti non possono essere trattati con troppa “autonomia”. Va però detto che è vero anche il contrario, cioè che su altri piedi è concesso saltare con veemenza barbarica.
  • Non ultimo il problema dello stile. Può succedere che al caporedattore “veemenza barbarica” faccia schifo e che esso sbatta sulla faccia dell’autore, con veemenza barbarica, il cd contenente il pezzo incriminato.

Alla fine produrre qualcosa di decente, di originale e soprattutto realmente informativo, non è punto semplice. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Un’informazione perlopiù appiattita e omogenea, senza grandi spunti, senza troppa energia.
Grandi spunti (in negativo e in positivo) si possono trovare invece tra le pagine della blogosfera, casualmente proprio perché tutte le condizioni di cui sopra vengono a cadere. Ma a qualcuno tutto ciò prude come un’orticaria estiva. Voglio dire, a me (modesto blogger) fa anche piacere che mi si voglia equiparare a un giornalista. Anche perché, per dovere di cronaca, fare il giornalista ha anche i suoi aspetti positivi. Puoi entrare al cinema gratis, imbucarti alle feste di Briatore, minacciare un fornitore di servizi poco efficiente di sputtanarlo pubblicamente e non ultimo, poter dichiarare la propria professione ottenendo in risposta gridolini di stima e ammirazione, generati dalla coscienza collettiva che accosta l’attività giornalistica a grande cultura e intelligenza. Quello che mi sta un po’ meno bene è che si voglia far ereditare alla diffusione di informazioni via internet, solo gli aspetti negativi del mondo giornalistico con in più alcune restrizioni che i giornalisti non hanno. Per esempio la legge sulle citazioni (in pratica fatta ad arte contro i blog e per proteggere l’informazione “ufficiale”) costringe chiunque citi una fonte a pagare i diritti all’editore. Una follia senza senso e un’ingiustizia se si considera che, al contrario, l’opera dei blogger può essere - cosa che avviene spesso - tranquillamente depredata (perché il concetto stesso di internet è la libera circolazione e integrazione di informazioni), non solo senza riconoscere emolumenti, ma persino rivendicandone la paternità.
L’assurdità di questa norma diviene pantagruelica se si esce dal mondo di internet e si prova a pensare, ad esempio, alle tesi di laurea che spesso riportano una quantità industriale di citazioni. Ad un povero studente conseguire la laurea verrebbe a costare un patrimonio in più di quello che già costa.
Sempre grazie a questa fantomatica equiparazione, ci troviamo davanti alle prime condanne nei confronti di blogger. E qui si capisce pienamente che a qualcuno questa realtà fa paura, tanto da sfruttarne con perfidia i suoi punti deboli. Ai giornalisti, che altro non sono che esseri umani, può capitare di sbagliare, a volte persino involontariamente, ma male che vada comparirà una smentita in corpo 5 spersa da qualche parte. Capita anche che l’autore di un pezzo non sia indicato e se ci si sente danneggiati dall’opera di qualcuno, bisogna avere un bel coraggio e un discreto esercito mercenario di avvocati per denunciare, chessò, Repubblica o il Corriere. Mentre accanirsi su un povero blogger che nel tempo perso si prende la briga di fare ricerche e analisi e condividere la propria opinione col popolo della rete, è cosa assai semplice. L’ingiustizia è amplificata dal fatto che TUTTI i blogger concedono nei loro spazi la possibilità di replica da parte di chiunque. Provate a mandare la vostra opinione a un giornale e vedete se la pubblicano in risposta a un articolo apparso il giorno precedente. Ovvio che i quotidiani non possono far parlare chiunque, ma proprio per questo un giornale è un giornale e un blog è un blog. Anche in considerazione del fatto che un blogger medio avrà un migliaio di lettori affezionati e qualche casuale avventore (su una popolazione di 58 milioni di persone). La prima è una questione professionale, la seconda un palcoscenico per dilettanti tra i quali, a volte, si trova qualcuno capacino.
Sia chiaro, in giro per la rete c’è un mare di spazzatura. Ma in qualche modo “l’intelligenza” che fluttua in internet la isola, la emargina. Comunque si mette (gratuitamente) nelle condizioni il lettore di scegliere, di capire la strada che vuole seguire. Gli si da fiducia insomma. Forse questa fiducia è spesso mal riposta, ma cercare di controllare qualsiasi forma di informazione equivale a considerare inetti tutti quelli che le informazioni le cercano. Senza contare che internet è infestata dalle peggiori schifezze (che l’uomo riesce a creare), tra incitazioni alla violenza, alla guerra, al razzismo, c’è qualcuno che si preoccupa di denunciare un blogger per l’inesattezza delle notizie riportate. Se facessero lo stesso per i giornali, ci rimarrebbero solo quelli che si occupano dei necrologi e degli annunci matrimoniali.
Insomma se proprio volete farmi piovere addosso tutti i problemi dei giornalisti, tra un anno voglio la possibilità di dare un esame e diventare pubblicista. Voglio entrare gratis al cinema (preferirei dei buoni benzina se possibile, il cinema non mi piace) e voglio poter dire che nel tempo perso faccio il giornalista. Vannino Chiti, prenda nota per cortesia.


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mercoledì 10 gennaio 2007

Una vita fa


Quando Cruman ha scritto il post sulla sorte, che a mio parere è uno dei più crumaniani della sua vita, ho capito che mi voleva lanciare un tremendo messaggio trasversale: sono diverse lune che non scrivo su CLDH, sono stato neghittoso alla richiesta di spiegazioni in proposito, e ho pure vissuto il temerario lancio sul mercato del libro Post Scriptum come se non fossero fatti miei (quando invece pare siano fatti miei al 12%). Colpe, queste, che vanno lavate.
Per non rischiare la vita ho deciso di sospendere la stipsi e di cambiare vita.
Ma se uno cambia vita, cosa ne fa di quella precedente? In assenza di campagne di rottamazione, è inutile rispondere che dipende da quanto essa vale: quanto vale una vita non si sa. Se nel guardarmi intorno incontro un televisore con dentro RealTV, mi faccio l’idea che una vita umana certe volte può valere molte altre vite messe a repentaglio per salvarla. Anche se quello da salvare è un inetto che s’era avventurato col pedalò in cima alle cascate Victoria.
Se nel guardarmi intorno incontro il mio amico che vive sull’isola di Jamaica e lui mi racconta di un gruppo di bimbi neri che giocano intorno al corpo senza vita di un uomo trascinato dalle onde sulla battigia, allora penso che per un bimbo di Jamaica una vita valga meno di un girotondo e mi dico: “Magari fossi io quel bimbo”.
Quando poi il mio amico aggiunge che l’arrivo della polizia sulla spiaggia fa fuggire i bambini e finalmente toglie l’orrore dal volto mediamente sotto spliff dei turisti, allora capisco che la vita può valere una bella figura in termini di immagine internazionale, e che fondamentalmente il problema di quanto vale una vita è sentito nel Primo Mondo, e poi a scalare progressivamente meno nel Secondo Mondo, nel Terzo Mondo e quasi per niente nell’Altro Mondo. Eppure sempre di vite si tratta, mica di uva.
Se nel guardarmi intorno incontro il mio amico assicuratore, egli mi spiega cos’è il prezzo in valuta della vita, quello che alberga dentro una polizza: esso dipende da che vita è. È proprio nel campo delle assicurazioni che trova corpo l’evidenza empirica che una bella vita possa aver più valore di una vita grama.
Nella nostra cultura occidentale postmoderna la vita è un “bene” protetto in ogni modo, per cui sono ritenuti plausibili concetti come il “diritto alla vita” (secondo alcuni estensibile anche ai non ancora nati), e per chi mette a repentaglio oppure conclude la vita di qualcun altro sono previste punizioni molto serie (il che non implica che vengano poi applicate). Ci sono posti dove la vita vale tutte le paure d’una società, e in quei posti sovente si propone la messa a morte di chi toglie la vita ad altri. Ci sono posti dove la vita vale tutti i sensi di colpa di una società, e in quei posti di solito si evita di mettere a morte chi ha causato egli stesso la morte di qualcun altro, seppure fosse stato solo per il piacere di farlo. Ci sono situazioni in cui la vita vale solo perché appartiene a una persona molto vicina, e vale molto meno perché è quella di una persona tanto lontana da essere invisibile, quindi il valore della vita può essere funzione derivata di vari tipi di distanza.
Il punto è che in una società materialista che deve necessariamente assegnare valori, è abbastanza facile che il rapporto con la vita, che è un qualcosa che non si sa quando comincia e quando finisce, che si può usare, godere o sprecare ma non si può né guadagnare né vincere, che può essere meravigliosa o detestabile semplicemente in base al culo che hai, diventi totalmente schizofrenico. Altrimenti non si spiega per quale motivo, se una vita è preziosa, una doppia vita debba essere deprecabile. Quando invece tutti sanno che è meglio avere una doppia vita che il doppio mento.

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lunedì 8 gennaio 2007

Condannati a sorte


Ricordate il momento in cui avete realizzato che un giorno sareste morti? Quando è successo? L’istante esatto della vostra infanzia in cui questa consapevolezza si è accomodata nelle viscere del vostro organismo per non abbandonarvi più dandovi a volte coraggio a volte paura; travestendosi un giorno da fede un giorno da speranza. Quell’istante dovrebbe essere il big bang del terrore, il ground zero di una prospettiva folle, di un orizzonte di cui si perde il senso. Eppure… io non me lo ricordo. Come è possibile? E’ possibile che la morte sia con noi sin da prima della nascita? E questo può significare che la morte coincida con la nascita?
Certo è che negli ultimi tempi si sente parlare più del tristo mietitore che di Al Bano (che anch’esso, a suo modo, è un triste mietitore in quel di Cellino). I climatologi giurano che tra pochi anni faremo windsurf sulle Dolomiti e le nostre oasi ecologiche diventeranno delle vere oasi, con le palme e i cammelli. Ci toccasse di sopravvivere a questo, nel 2036, una meteora riporterà sulla terra i dinosauri e non ci sarà Bruce Willis a salvarci. Forse però di tutte queste vicende non faremo in tempo a scoprire se sono merito del governo attuale o del precedente. Gli scenari atomici del secolo scorso si sono spostati verso oriente, ma sono, se è possibile, più stupidi e pericolosi dei precedenti e come disse un impiegato del catasto tedesco “non so con che armi si combatterà la terza guerra mondiale, ma la quarta si combatterà coi sassi”.
La morte ha una vita lunghissima. La nostra memoria ne è succube e l’immaginazione sorella. Di molti personaggi storici ricordiamo la loro fine, ma quasi nulla di ciò che hanno fatto. Pensate ad Abele, Socrate, Cleopatra, Napoleone la cui spoglia stette. E per molti altri ha significato l’accesso alle pagine memorabili, un accesso che, vivendo, non si sarebbero meritati.
Archetipi attuali di ciò che consideriamo fine e speriamo inizio sono senza dubbio Welby e Hussein. L’uno alla ricerca di una morte che non gli si voleva concedere e l’altro intento a sfuggire a quella che gli si è voluta imporre. Questi destini uniti dall’epilogo e dalla quantità di parole usate per seppellirli, hanno simboleggiato il paradosso tragico che avvolge l’illusione di porsi razionalmente davanti a qualcosa di cui nulla conosciamo e che spaventa per ciò che non è. Ci si è interrogati sull’eticità di decidere la propria fine. L’uomo lo ha sempre fatto. Ci si può lasciar morire anche senza spararsi un colpo in testa, ci si può immolare per qualcosa in cui si crede o per salvare qualcuno. Salvo D’Acquisto decise di sacrificarsi per la vita di suoi simili, come Gesù si lasciò uccidere per l’uomo, come Socrate per un ideale. E Welby divenuto un caso perché impossibilitato a suicidarsi (altrimenti sarebbe passato inosservato) ha espresso il lato più tragico di questo paradosso. La sua vita ha assunto per tutti noi un significato speciale, unico. Mentre per lui non ne aveva più alcuno. Per molta gente il senso della sua vita è stata la possibilità di porvi fine. La morte come senso della vita. Per Welby la fine giustifica il mezzo.
Saddam è finito vittima della cultura di cui faceva parte ed era anche artefice. Quella cultura che certi intellettuali continuavano a dirci di rispettare e qualcuno più intellettuale degli altri arrivava anche a dirci di guardarla come ben più evoluta della nostra. Una cultura che ha continuato a “giustiziare” nel quasi silenzio generale. Silenzio rotto dal cappio stretto al collo di uno dei più “giustiziabili” di cui si è avuta notizia. Lasciamo decidere agli iracheni, si è detto. Rispettiamo la loro cultura. Ora il risultato non piace a nessuno. Nemmeno agli intellettuali transrispettosi.
Qualcuno dice che tenerlo in vita avrebbe dato il la a nuove Beslan nel tentativo di liberarlo, qualcuno voleva solo vendetta. In questo caso, pare, il fine giustifica i mezzi.
La sorte decide se sarai un tetraplegico che sogna di non svegliarsi più nel suo materasso antipiaghe o se sarai un assassino. Se sarai un assassino fortunato e multiplo, potrai anche diventare un conquistatore o un dittatore sanguinario.
A volte penso che anche le persone convinte che esista un aldilà e anche le più ottimiste, che pensano che l’aldilà esista e non ci sia l’euro, siano comunque convinte che quaggiù, in qualche modo ci si stia meglio. Non mi spiego altrimenti come mai il morire per volontà di un altro uomo, sia considerato comunque più terribile che non morire per volontà di un altro uomo.
Sorte e morte. Quale ci rende davvero uguali e quale diversi?
Nel frattempo, cercando di giudicare ciò che non conosciamo, finiamo per somigliarci tutti. Tutti noi che almeno una volta abbiamo pensato di qualcuno che non meritasse di vivere. Accettando come nostro questo pensiero e rifiutando nel contempo l’ipotesi di applicare questa valutazione di merito.

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venerdì 5 gennaio 2007

Formula 1.1


E’ stato da poco redatto il nuovo regolamento della Formula 1. Il che è seccante giacchè mi avanza di capire quello dell’anno passato. La Formula 1 è una bizzarra attività diportiva i cui protagonisti viaggiano a più di 300 chilometri orari allungati in un blister di acciaio che consente loro di articolare le caviglie per accelerare o, più raramente, frenare e i pollici opponibili per azionare i comandi al volante che governano il cambio e il volume dell’autoradio. Qualcuno di codesti atleti, particolarmente dotato di giunture snodabili, può finanche arrivare ad estrarre una mano dall’abitacolo mimando il proprio stato d’animo all’indirizzo dei colleghi. Forma di comunicazione non verbale molto apprezzata dalle regie internazionali.
A fare da contorno a queste sardine da corsa c’è tutto un circo fatto di tecnologia avanzatissima, progettisti, ingegneri, manager, meccanici (di quelli fichi, mica come gigi preventivo da cui porti la tua Stilo), paddock e un discreto numero di giovani donne vestite poco ma bene. Tutto questo rende la Formula 1 uno sport per ricchi. Una mezza giornata di prove costa come un figlio scemo e ad ogni piccolo incidente corrisponde una manovra economica molto simile al buttare via la tua Stilo nuova e comprarne un’altra per un graffio sul paraurti.
Siccome è un ambiente di ricchi e i ricchi non si fanno mancare nulla, il carrozzone della Formula 1 comprende anche un aspetto politico con tutti i crismi: raccomandazioni, sotterfugi, sospetti e delibere ufficiali incomprensibili se non contestualizzate a un cocaina party. Quindi ti capita di sentire che se l’autodromo di Monza vuole rimanere nel calendario gare, deve far sterminare centinaia di sequoie secolari sacre ai Navaho, poste a 28 chilometri dal rettilineo dei box. Mentre il fatto che a Montecarlo, uscendo di pista, si finisca sul ponte B di uno yacht equipaggiato a tette e culi, non impensierisce nessuno. Oppure succede che a Indianapolis delle macchine non scendano in pista perché il loro gommista gli ha dato delle gomme che non gommano.
Onestamente, non è nemmeno uno sport avvincente o interessante (se si esclude l’equipaggio del ponte B di cui sopra). La Formula 1 è un mostro autoreferenziale che si nutre di se stesso. Grazie a una serie di “evoluzioni” politiche e tecniche, le gare sono diventate appassionanti come Ghezzi che parla in asincrono dell’aspetto psico onirico del neorealismo di Eisenstein. Agli spettatori in loco è impossibile capire chi stia facendo che cosa. L’unica volta che ho assistito a un granpremio alla fine ero convinto avesse vinto una Mercedes. Poi mi hanno spiegato che era la safety car. Ma almeno ci ho guadagnato un bel torcicollo.
La cosa più emozionante che possa succedere, a parte la spasmodica speranza che al semaforo verde tutte le vetture si affastellino in un catartico falò, è assistere ad un sorpasso spettacolare eseguito a 80 all’ora nella corsia dei box a causa di benzinaro che è stato troppo lento a dare i bollini fedeltà (che fanno vincere dei premi bellissimi, il propellente per le vetture costa cifre da capogiro, quasi come un litro di verde al self).
Per porre rimedio alla noia, allo strapotere della tecnologia e agli altissimi costi, i capi del circo hanno elaborato una serie di semplicissime regole. Facendo un riassunto di quello che ho capito io dovrebbe funzionare più o meno così: ogni scuderia può portare tre macchine guidate da 2 piloti e da un terzo a scelta tra quelli che hanno portato le reggiombrello più sexy. Il propulsore deve aver fatto almeno 20.000 chilometri montato su una Smart che gira per Napoli e deve durare per almeno 3 granpremi. Se si rompe prima puoi fare delle riparazioni posticce (tipo usare una forcina per capelli come fascetta del pistone) oppure puoi farti spingere, ma solo da persone con patente speciale. Le gomme bisogna portarsele da casa in numero massimo di 14 treni (perché si chiamano treni che i treni le gomme non ce le hanno?), però ogni meccanico ai box può cambiarne solo una a settimana (per la 626) quindi il pilota deve essere munito di cric e triangolo (più pettorina catarifrangente). Al termine delle sessioni di prova e qualifica, le scuderie devono usare il carburante avanzato per alimentare gli scavatori di pozzi nel terzo mondo e chi riesce a trovare l’acqua guadagna un posto in griglia. Durante le utilissime soste ai box (che permettono alla gara di durare il giusto per un buon sonno ristoratore da domenica pomeriggio), si può mantenere una velocità di 220 chilometri orari. Questo a inizio stagione. Per ogni meccanico (o fesso qualunque con pass al collo rimediato di straforo, in cerca di modelle) investito, tale velocità viene decurtata di 20 km/h. Ad azzeramento completo non sarà più possibile fermarsi ai box e per il rifornimento verranno usati F114 cisterna.
Ma questo è un blog utile e non solo vaniloquente. Qui si trovano soluzioni non si critica a vanvera. Quindi ecco la mia soluzione, semplice efficace e geniale. Come lo sciacquone:
eliminare definitivamente i box e con loro tutte le norme relative e centinaia di omini che passano il tempo a cambiar gomme, far rifornimenti, prendere fuoco e finire sotto una macchina. Con quella vettura si parte e con quella si arriva. Come il motociclismo. Si corre solo in piste adatte, molto larghe e con grandi vie di fuga. Due manche secche di 20/25 giri. Niente strategie, tattiche, calcoli di soste ai box eccetera: se vuoi vincere devi passare davanti agli altri. In pista, non mentre tolgono i cadaveri di moscerini dalla visiera dell’avversario. Risultato: un risparmio economico pari al PIL del Venezuela, gare divertenti e regolamento comprensibile a tutti.
D’accordo, forse io la faccio troppo semplice, ma sicuramente loro la fanno troppo complicata. Poi facciano pure come vogliono, basta che lascino le reggiombrelli sulla griglia se no non guardo più nemmeno la partenza.

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martedì 2 gennaio 2007

Il senso di Spaggio per la neve


Come tutti i mezzi di informazione di massa (che prendono il nome dalla massa di minchiate che dicono), anche il nostro blogo, in questo periodo, non si esimerà dall'ingrato compito di disquisire su ponti natalizi, partenze intelligenti, vacanze idiote, cenoni pantagruelici e compagnia bella. Questa è quindi la storia di tre baldi giovani (Pinfi, Cruman e Spaggio) che si sono lasciati abbindolare dalla lungimiranza di Elvio che, alla terza weiss media, snocciolava idee geniali come se piovesse. In sintesi la pensata di Elvio era quella di partire il primo dell’anno alle sei di mattina per andare a sciare in modo di gabbare la plebaglia che ronfa fino a mezzogiorno per riprendersi dai bagordi della notte precedente. Non che i nostri quattro amici avessero mangiato un brodino caldo e si fossero messi a letto alle nove. Risultato: una BMW con all'interno quattro zombi che vagava nella nebbia della Brennero. Giunti a destinazione si resero conto che probabilmente una talpa aveva diffuso l'ideona di Elvio (il quale non aveva fatto in tempo a depositarla all'ufficio brevetti) e si ritrovarono nel parcheggio della cabinovia che somigliava molto a quello del Bernabeu dieci minuti prima del fischio d'inizio di Real Madrid - Barcellona.
Mentre Elvio e Spaggio prendevano un caffè cercando di comunicare con l’amico Iot, il quale avrebbe dovuto aspettarli in loco per sciare con loro, Pinfi e Cruman si recarono al noleggio sci (Cruman non aveva potuto portare il suo amato monosci per problemi di aderenza e cx della macchina mentre Pinfi voleva provare il fun carving che pare non sia una parolaccia). Evidentemente nemmeno i noleggiatori erano andati a dormire alle nove la sera prima, considerato che uno girava per il negozio con un cappellino a cono e una trombetta in bocca e l'altro parlava una lingua che si pensava morta da secoli e capiva una parola su dodici (ma forse questo non dipendeva dai festeggiamenti). Sta di fatto che Cruman chiese sottovoce se per caso fossero in possesso di un monosci e il ragazzo fece sei telefonate con aria preoccupata facendo alfine giungere in negozio un misterioso omino che fece cenno a Cruman di seguirlo in silenzio. Lo guidò in una cantina tra gabbie appese al soffitto contenenti ossa umane e antichi cimeli di Torquemada. Quindi da sotto una botola nascosta da urne cinerarie, tirò fuori una polverosa tavola, spacciandola per un monosci appartenuto a Rasputin con il quale il consigliere dello zar fuggì da Mosca. Purtroppo gli attacchi non andavano bene per il piedino cenerentoloforme di Cruman e l’affare non si fece. Alterna fortuna ebbe anche Pinfi che intrattenne con il negoziante la seguente conversazione:
-pinfi- Vorrei dei fun carving
-omino- Ma lei è bravo? (il testo è già tradotto per comodità)
-pinfi- Sì me la cavo
-omino- Come?
-pinfi- Vado forte
-omino- eh?
-pinfi- Facevo le gare?
-omino- Che cosa?
-pinfi- Sono stato azzurro di slalom
A questo punto l'omino sfodera da una custodia in acero lavorato a mano un paio di sci con lamina d’oro e attacchi in platino ionizzato, tutto tempestato di diamanti.
-omino- Sono 25 euri all'ora
-pinfi- Non avrà creduto alla storia dell’azzurro di sci vero?
-omino- Non ho capito
-pinfi- Se avessi tutti quei soldi noleggerei un panfilo
-omino- E che ci fa con un panfilo a Pampeago?
-pinfi- Ah adesso ha capito! Mi dia quelli da principiante!
I due uscirono con gli sci dopo mezz’ora, tempo che l’omino impiegò per scrivere su un foglietto la data e il numero di serie. L’amico Iot intanto mandava messaggi criptici annunciando problemi vari che causavano il suo ritardo. I quattro decisero di partire e in pochi minuti furono sulle piste sci ai piedi. Attirando l'attenzione di tutta la Val di Fassa grazie al loro abbigliamento sobrio ed elegante che avvolgeva armoniche movenze e tecnicismi d'altri tempi.
Ma il destino era in agguato. Spaggio tentando una manovra che in passato era riuscita solo a Stemmark e a Zeno Colò, cadde come corpo morto cade e ruzzolò (non senza mantenere una certa eleganza) per tre quarti della pista di fronte a un preoccupatissimo Cruman (che giustificò il sorriso che non riusciva a levarsi dalla faccia con una paresi da ipotermia). Proprio Cruman raccolse i poveri resti dello sfortunato (tutti rigorosamente di marca) e lo ricompose alla meno peggio
Ma il destino si stava divertendo troppo e nonostante le sentite preghiere che Spaggio rivolgeva a chi lassù ha un qualche potere decisionale, non smise di fare agguati. Spaggio, che aveva riportato nella caduta il distaccamento di gran parte del pollice destro, era sicuro che il fato si sarebbe accanito su qualcun altro. Gli altri tre si dimostrarono d’accordo ma non si negarono una grattatina agli ammennicoli tanto per gradire. Ma Spaggio è grand'uomo e pensò bene di evitare una tale disgrazia ai suoi amici riservando a se stesso anche il secondo agguato del destino facendosi investire da un sicario della yakuza con gli sci al quale il nostro chiese immediatamente scusa notando i quattordici gorilla che accompagnavano l’investitore. Nella caduta Spaggio si disossò l'ultimo pollice sano di cui fosse fornito privando così il mondo di un'artista della digitopressione cellulare come non se ne vedevano da decenni. L'impossibilità di inviare sms gettò il giovane nello sconforto più totale. Nel frattempo Iot comunicava definitivamente la sua defezione inventandosi distrofie ai gemelli del polpaccio (il tutto senza riuscire a smettere di ridere).
La mattinata sportiva si concluse con l’ennesimo tributo di Spaggio al destino, realizzatosi nello smarrimento di uno sci dopo l’impatto con una marmotta gigante del Tibet in visita turistica e con la spettacolare esibizione di Elvio e Cruman che saltarono dal trampolino olimpico K120 uscendo dall’esperienza (cito testualmente) “con un certo languorino”. Pinfi si è comunque dichiarato soddisfatto della sua esperienza con i fun carving (non ci si spiega infatti come mai sia stato visto cercare di scambiarli con il bob di un bambino). Mentre lo stomaco di Cruman, che già brontolava alle 9.14, prese in ostaggio la milza chiedendo un capriolo una fonduta un caciucco (?) e un elicottero prima di rilasciarla.
A pranzo, Cruman Spaggio e Pinfi (Elvio si eclissò con la scusa di dover salutare una zia e tornò solo dopo un’ora con l’aria colpevolmente soddisfatta), nonostante alcune difficoltà comunicative con una cameriere sarda, mangiarono tutto ciò che avesse la parvenza di essere stato vivo e, colti da allucinazioni gastronomiche, ordinarono un bicchierino di grappa alla pera con tre cannucce.
Sulla via del ritorno Pinfi intrattenne gli amici russando talmente forte che una pattuglia della polstrada fermò la macchina e chiese ad Elvio l'autorizzazione per il trasporto dei suini. Ma la cosa veramente straordinaria è che Elvio ce l'aveva e la mostrò all'agente ostentando una certa tronfiaggine.
A fine giornata Pinfi fu accompagnato all’aeroporto di Bologna dove si imbarcò su un Savoia-Marchetti del 1928 e sparì tra le nuvole. Spaggio ormai provato dalla sfida con il destino si diresse, pollici in aria stile Fonzie, verso l'appuntamento con la sua dolce donzella. Cruman scese dalla macchina dormendo, passò dei soldi a Elvio dicendo “tenga pure il resto buonuomo” e imboccò il portone sbagliato finendo a dormire da un ragioniere omosessuale di Vigevano in domicilio coatto. Di Elvio le leggende raccontano… ma questa è un’altra storia.

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