giovedì 29 marzo 2007

La cena dei cretini


Questa sera a Palazzo Chigi si svolgerà una cena segreta. Ospite (in quanto ospitante) il presidente del buon consiglio Prodi e ospiti (in quanto ospitati) i leader dell'Ulivo. Sul tavolo la legge elettorale. Questo mi fa capire due cose: si sa dove la cena si svolgerà, quando, chi vi parteciperà e come si intratterranno i commensali indi per cui il concetto di “segreto” in Italia persevera nel servire unicamente a rendere famoso Pulcinella. Mi ricorda vagamente la mia professoressa di matematica che usava dichiarare minacciosa “lunedì prossimo compito in classe a sorpresa”. La seconda cosa che ho capito (la prima era quella del segreto per chi non fosse stato attento) è perché la legge elettorale è unta: non c'entra il Signore, è il grasso dei ciccioli.
Il perché ci sia bisogno di una cena per affrontare un tema così importante non è facile da intuire, ma ci provo. Per esempio è più lineare aspettarsi da uno famoso col soprannome di “il mortadella”, che organizzi una cena piuttosto che un brain storming (altrimenti l'avrebbero chiamato “il neurone”). La confusione è tipica delle cucine dell'inferno descritte dal Baldus e dipinte da Bosch. Tra mattarellum, porcellum, un maggioritario corretto (grappa) e gente che dorme sugli allori (svegliandosi insaporita), non si capisce che cosa bolla in pentola.
Secondo indiscrezioni la cena sarà a base di piatti esotici. Tutti si sentono ispirati dalle specialità straniere. Qualcuno vuole il sistema tedesco, un proporzionale estremo antibipolarista, ma secondo altri se è vero che questo modulo ha portato la Germania a giocarsi sei finali mondiali, è anche vero che ne ha vinta una sola. Berlusconi insiste con le due punte, ma è plausibile immaginare che preferirebbe il modulo del Monaco: un principato fondato sull'indifferenza fiscale, per il quale pare abbia già organizzato una corte dei miracoli italiani ridondante di giullari. Da via della Scrofa (per rimanere in tema porcellum) arriva il bisogno di ispirarsi allo stile francese: poca roba, ma carissima. I piccoli partiti pensano che lo sbarramento (verso le aule dove si mangia) al 5% sia un'ingiustizia per gli italiani. Gli italiani pensano che sia un'ingiustizia per i piccoli partiti. Vissani intanto crea un nuovo partito: l'Italia dei sapori.
Prodi non si pronuncia. È scaltro come una poiana. Ha imparato dai campionati di poker che segue in tv accompagnato da cubetti di mortadella, che in certi casi è meglio rimanere coperti. Fare parola e attendere che gli altri svelino il loro gioco. Poi, in base alle reazioni, prendere la strada vincente nonostante si abbia in mano un 3 di picche e un 6 di bastoni. Quindi non vi fate prendere dall'ansia se non avete capito che cosa ha intenzione di fare il governo, non lo ha capito nemmeno lui, ma attendete l'ultima mano... che vi arriverà sul muso come una tranvata.
Qualcuno cerca di far capire che bisogna prendere una posizione e fa presente a Prodi di avere puntata alla testa la pistola referendaria di Guzzetta (una pistola referendaria abrogativa immagino che si scarichi premendo il grilletto e faccia fuoco inserendo la sicura). Il nostro Presidente ha prontamente ribattuto con sagacia politica “socmel, chi cazzo è Guzzetta?”. Comunque, alla faccia di chi ritiene che l'immobilità sia il segreto del dinamismo prodiano, il buon Romano si è dato da fare: ha esautorato gli organi competenti e affronterà da solo la questione, spalleggiato da Vannino Chiti. Il gesto degno degli statisti più avvertiti, è stato sottolineato dallo stesso Presidente con una frase talmente meritevole di comparire nei libri di storia, che comparirà anche in quelli di matematica: “ca't vegna 'n cancher, chi cazzo è Vannino Chiti?”.
La legge elettorale dovrebbe servire a far sì che il Paese venga governato dalle persone giudicate più sexy dall'elettorato. In realtà non è così, ma anche se lo fosse, non sarebbe così lo stesso. Perché al di sopra del sistema elettorale (qualsiasi) si adagia un meccanismo noto ai politologi come “famo come ce pare” per cui alla fine comanda gente che nessuno ha votato. Anzi, sono state trovate molte schede con scritto “va bene tutto, ma non quello lì”, ma a nulla è valso. Questo meccanismo, per esempio, consente a un omino eletto nelle liste di un partito all'interno di una coalizione, di dimenticarsi la dose di metadone e fondare di punto in bianco un nuovo partito e magari schierarsi nella coalizione avversa. Quel partito, che magari si ritrova al governo, non l'ha votato nessuno (perché non c'era durante le elezioni, ma non l'avrebbe votato nessuno lo stesso) e quell'ometto probabilmente non ce l'avrebbero voluto al governo altrimenti l'avrebbero votato più forte prima. In un mondo fatto di persone di buon senso, se uno cambia idea non può saltare di là a metà partita. Si dimette (oddio che ho detto) e attende il prossimo giro senza nemmeno ritirare le 20.000 lire. Altrimenti il popolo sovrano non sovrana un bel niente.
Il concetto di dimissioni è un fatto oscuro come la costante assenza di carta igienica in bagno. In Danimarca un ministro si è dimesso perché la moglie si è dimenticata di pagare il canone della televisione. In Israele un primo ministro si è dimesso perché la moglie aveva guadagnato circa 3000 euro con un'operazione di borsa (non uno scippo, un investimento, cioè non in macchina..va be' avete capito) e non ci aveva pagato le tasse. Ciò mi insegna due cose: primo che i politici non dovrebbero sposarsi se vogliono fare carriera. Secondo che in Italia il concetto di vita privata è completamente sovrapponibile a “faccio quello che mi pare, voi fatevi gli affari vostri”. Se un politico va a peripatetiche, non sono affari suoi. Specie in un paese civile dove da anni si cerca di combattere la tratta delle schiave (con relative violenze, soprusi e immensi guadagni per la criminalità) e da anni si sostiene che ad alimentare tale mercato sono ovviamente i “consumatori”. È vero che un operaio e un politico devono avere lo stesso diritto o non diritto di andare per prostitute, ma non è vero che sussista una parità sostanziale di “significato”. Perché vale stracciare l'anima ai calciatori che devono dare il buon esempio in campo (e sono solo dei calciatori) mentre chi governa il paese può fare ciò che vuole? Esiste un concetto di immagine e di influenza sociale? Se esiste non esiste solo per i calciatori ed avere al potere gente avvolta in un poncho fatto con la propria fedina penale (dai reati finanziari al terrorismo) o che tira di coca e va a mignotte non mi sembra un esempio specchiato di civiltà e progresso. Io sono contento che la moglie di Sircana abbia perdonato suo marito. No, non è vero, non me ne frega niente, ma qui non solo comandano e prendono soldi persone che nessuno ha votato, ma in più ti dicono una cosa in faccia e te ne fanno altre dietro (e va be'). Qualcuno disse “se può farlo a sua moglie, può farlo anche al paese”.
Qui le finezze legislative contano zero. Conta che in qualche modo si impedisca a questa gente di fare sempre i loro porci comodi. Se no finisce tutto a puttane, perché a cena ci vanno loro, ma i cretini siamo noi.

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martedì 27 marzo 2007

Sono andato in taxi in un luogo comune


Siccome non ho trovato l'omologazione antipolluzione della mia bicicletta ho preferito chiamare un taxi, che lui ce l'ha sicuramente. L'omologazione dico, non la bicicletta. Siccome non so fischiare ho preferito telefonare perdendo tempo e fascino. La centralinista deve essersene accorta perché invece di Coimbra 24, mi ha mandato Colleferro 1. Non sono riuscito a non pensare come quell'uno ostenti la presunzione di una successione, nonostante si trovi nei pressi di Colleferro. Mica di Vittorio Emanuele o Ramsete. Fibrillo nella poco fascinosa attesa. È in qualche modo eccitante pensare che qualcuno accorra a soddisfare il mio bisogno di mobilità e che oltre a traslocarmi, mi intrattenga nel suo duplice ruolo di compagno di viaggio e artefice del menarmi a destinazione.
Che vita è la mia se trovo affascinante tutto questo?
Il taxi giunge, mi inghiotte e riparte emettendo rumori e gas certificati. Cerco di intuire quale tipo mi ha concesso la sorte. Le ultime esperienze con l'autista psicologo e il bestemmiatore le avevo decisamente subite. Mai come quella volta col tassista psicologo bestemmiatore: “lei è un timido vero?”... veramente no... “ma porc...”.
La sua prima domanda (la seconda, la prima è “dove?”) mi toglie ogni dubbio: il complottista. Meno male, non avrei sopportato un altro intimista depresso.
“Ha visto la partita dottò?”
“Che partita? Comunque no”
“Ha fatto bene dottò. Tanto er calcio è tutto pilotato. Nun ce crederà dottò, ma lei vede una partita e pensa che una squadra vince perché so' mejo dell'artra. Anvece no. L'hanno bello che deciso i priori”
“Chi?”
“I priori. Pria no?”
“Ah a priori, certo. Ma guardi buonuomo, io le credo. Non tanto per la stima e il senso di competenza che mi incute, ma perché le sue ipotesi di complotto sono ormai passate dai banconi dei bar ai banchi dei tribunali. Se ne sono occupati persino i politici”
“Ah i politici, bboni quelli. Lei nun ce lo sa, ma quelli la mattina comiziano e ponteficiano, poi tirano su col naso e vanno a mignotte, co rispetto parlando. Pensa dottò che ce sta un fotografo che c'ha le prove. Io lo conosco ma non so come se chiama. È sposato co na bbona che fermate.”
“Nina Moric”
“Chi?”
“La moglie di Fabrizio Corona”
“Ecco sì bravo dottò, proprio quella. Suo marito che non mi ricordo il nome c'ha certe foto che nun ce se crede.”
“Ci credo amico mio, lei mi ispira fiducia”
“Eh fa male dottò, nun se deve fidà de nessuno. E stia attento a quello che dice. Ce so' microfoni dappertutto. Telefoni, bancomat, telepass, computer, il suo contro corente. C'è una struttara umbra che ci tiene sotto controllo, dia retta dottò”
“Umbra?”
“Sì, sì, umbra, che lavora nell'umbra. Che 'n ce crede?”
“Molto di più vecchio mio, ne sono convinto e una decina di arresti, ventitrè chilometri di tabulati, uno che si è fatto suicidare e alcune leggi paraculo hanno convinto un po' tutti. Non so se lei potrà trarne soddisfazione o disappunto, ma tutte le sue teorie da spy story sono ormai realtà appurata. Quello che prima serviva a farci film ora serve a farci incazzare.”
“Ma che davero dottò?”
“Temo di sì”
“Non ci sono più le mezze stagioni?”
“Storia”
“I politici sono tutti ladri?”
“Economia politica”
“Di mamma ce n'è una sola?”
“Fantascienza”
“Gli elicotteri invisibili? Osama nascosto nel ranch di Bush? Red Ronnie è un ufo?”
“Sono arrivato”
“Sono 150 euri”
“Lei ha mai sentito quella storia dei tassisti che fregano i clienti?”
“La gente si inventano qualsiasi cosa pur di protestare dottò. È tutto un lagna lagna”
“Arrivederci”
“Addio dottò, non prenda l'ascensore, in realtà è uno scanner costruito con la tecnologia aliena. Leggeno il pensiero e se troveno qualcosa che nun va bbene te irradiano col pologno e te fanno venì un calcinoma”
Di questi tempi bisogna mantenere la calma. Il fatto che tutto quello che dicevano i tassisti, i barbieri e mio cugino si stia rivelando fondato, non deve metterci sulla strada del luogo comune. Non è detto che anche tutte le altre leggende metropolitane siano altrettanto vere (a volte inferiori alla realtà): i poteri occulti delle case farmaceutiche, la cura del cancro, la macchina che non c'inquina e l'aereo che non tombola. Il coccodrillo bianco delle fogne di New York, Atlantide, gli extraterrestri, Follini. Non possiamo sentirci autorizzati a qualsiasi dietrologia... credo.
Comunque considerato che 150 euro per avere informazioni che sono già di dominio pubblico sono davvero troppi, mi dirigo verso la metropolitana. Faccio sempre un po' di confusione: linea gialla, verde, rossa. Leggo su un cartello a che cosa corrispondono: un'altra legenda metropolitana. Sarà un segno.
Sotto casa mi scrollo di dosso un po' di ansia e di odore di viaggiatori sotterranei. Mi sorrido con superiorità, ma la vetrata del portone mi rimbalza l'espressione di uno che è in nomination. L'ascensore irrompe nella mia vita come a darmi la forza di vincere la gravità della situazione. Le porte scorrono (Eraclito aveva ragione), la luce bianca, la portata massima... tutto normale, come sempre. Entro e istintivamente sposto i miei pensieri su un altro piano: “il mattino ha l'oro in bocca, il mattino ha l'oro in bocca, il mattino ha l'oro in bocca, il mattino ha l'oro in bocca...tassista di merda”

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giovedì 22 marzo 2007

Libridine


È stato chiesto a 125 scrittori di esprimersi sul miglior libro della storia della letteratura. Onestamente non è facile rispondere ad una domanda simile, specie se la risposta “il mio” non è considerata valida. L'indagine ha avuto infatti un andamento di questo tipo:
Int: Qual è il miglior libro della storia?
Scr: Il mio.
Int: Uno che abbia venduto delle copie intendo.
Scr: Ah allora quello di Tolstoj
Int: Quale?
Scr: Madame Bovary
Int: Quello è di Flaubert
Scr: Sì allora quello
Int: Voleva dire Anna Karenina forse?
Scr: Sì sì quello
Int: E di guerra e pace che ne pensa?
Scr: Non l'ho visto. Ci sono i sottotitoli?
Il fatto che queste tre opere siano risultate le più nominate non può non spingere ad alcune riflessioni, oltre che ad esclamare “ne avessi letto uno!”. Guerra e pace e Anna Karenina sono entrambi di Tolstoj (o di più persone che indossarono a turno le stesse scarpe) il che ci porta a pensare che se il vecchio Leo vivesse oggi avrebbe più accessi di Beppe Grillo. Altre cose che saltano all'occhio: tutti e tre i libri sono stati pubblicati nella seconda metà dell'800 e tutti e tre sono usciti prima a puntate su un periodico (Il resto del Cremlino per Tolstoj e Il venerdì del Repubblichino per Flaubert). Anna Karenina racconta di una donna insoddisfatta dalla vita coniugale che si abbandona all'adulterio e poi si uccide. Madame Bovary invece narra di una donna insoddisfatta dalla vita coniugale che si abbandona all'adulterio e poi si uccide. Il fatto che Flaubert fu pubblicato prima, unito al fatto che Tolstoj conoscesse il francese e all'assonante distribuzione di vocali e consonanti in Emma e Anna, alimentò i soliti sospetti, ma i detrattori del russo persero misteriosamente la vita durante una cena in un ristorante giapponese a Piccadilly Circus. Per guerra e pace (le prime 100 pagine più lette da quando è stata inventata la lettura) la faccenda si fa complessa. I personaggi sono un po' più di 3: circa 760. Caratteristica che trova ragione di sé nell'evoluzione del pensiero tolstojano che da principio voleva trattare della rivolta decabrista, poi già che c'era ha pensato bene di affrontare tutto l'apparato geopolitico europeo e visto che gli avanzava tempo ha messo becco anche su religione, misticismo, matrimonio e tecniche di respirazione puerperale. Il tutto assolutamente svincolato intellettualmente dal fatto che l'editore pagasse a fascicoli. Ma entriamo meglio nella sostanza delle opere.
I lavori dello scrittore russo sono permeati da alcuni concetti portanti:
Concetto portante numero A: nell'aristocrazia russa era molto in voga parlare francese e praticare l'adulterio. I più aristocratici riuscivano ad esibirsi nelle due attività contemporaneamente. Per perfezionare la erre moscia esistevano dei tutori. Per contrastare la moscità, anche.
Concetto portante numero B: gli uomini della nobiltà russa contrastavano la noia e la routine quotidiana partendo per qualche guerra. Le donne della nobiltà russa contrastavano la noia e la routine quotidiana rimanendo incinte (indipendentemente dalla dislocazione dei mariti), il che spingeva gli uomini a partire con maggior fervore per qualche guerra generando noia nelle proprie mogli eccetera. In un circolo talmente intricato da potersi definire vizioso.
Concetto portante numero C: sullo sfondo di parti e partenze aleggia sempre un deus ex machina che, a turno, può essere la moralità, la religione, il disprezzo per il lassismo etico dell'aristocrazia (il tutto solitamente albergante in un personaggio che ha nettamente i lineamenti dell'autore e anche la stessa voglia a forma di tatuaggio sul bicipite) oppure un treno in movimento. In Anna Karenina ci si imbatte in un bambino alle prese con un trenino (limav), poi con un ferroviere che perde la vita in un incidente sul lavoro (con grande disappunto di Lamav, Carnitiv, e Benvenutiv), poi la protagonista ha incubi ricorrenti sull'accelerato Lodi Casalpusterlengo e uno comincia a pensare che sto treno arriverà puntuale nel finale, rappresentando peraltro un raro caso di deus ex machinista. Un po' come il ciccione dei film che sai dalla prima inquadratura che finirà male. Infatti l'eroina opterà per buttarcisi sotto (al treno non al ciccione) e insanguinando il parallelismo delle rotaie disegnerà la lirica dicotomia tra mortalità e infinito. Mica pizza e fichi.
Verso Madame Bovary si può avere un approccio più leggero. È in fondo una storiella semplice divenuta best seller grazie allo stile ricercatissimo dell'autore e a un rumoroso processo per oscenità che seguì la sua pubblicazione. La storia, come detto, è semplice. Emma Bovary sposa una sorta di mr. Bean che le viene a noia già a metà cerimonia. Piano piano cede alle lusinghe della passione extradomestica fino a progettare quella che nella Francia di inizio '800 era nota come “fuitina”. Il giorno prima della fuga d'amore però, l'amante le fa trovare un post-it sul frigorifero con scritto “scusa ma ho lasciato il gatto sul fuoco. Addio.” e lei non la prende benissimo. Il marito becco, ma comprensivo si prende cura di lei facendole cambiare aria e creando per loro una nuova vita in un'altra città. Lei si riprende a tal punto da esprimere gratitudine verso il consorte concedendosi carnalmente al primo maschio aborigeno che incontra. La relazione va avanti per molto tempo. Lei va a lezioni di piano e poi torna a casa, poi va ancora a lezioni di piano e così via. Dopo un periodo sufficiente per completare l'incompiuta di Shubert, Emma suona a stento “John Brown giace nella tomba là nel pian” e con un dito solo. Ora se non fossi un signore farei la battuta di lei che suona il piano e lui la tromba, ma siccome sono un signore non la faccio. Disperata dal dissesto economico e ormonale generato dal suo comportamento licenzioso Emma decide di farla finita assumendo (con grande apprezzamento da parte di Lamà, Carinitì e Benvenutì) del cianuro. Evidentemente la vicenda si svolge prima dell'invenzione del TGV (infatti i pendolari erano avvelenati).
A differenza delle opere di Tolstoj qui è difficile trovare tratti dell'autore tra le pagine sebbene lo stesso Flaubert ebbe a dire anni dopo la pubblicazione “Madame Bovary c'est moi”. Per alcuni identificandosi nelle tinte drammaticamente passionali del romanzo, per altri aprendo la strada agli odierni pacs.
In definitiva ritengo che queste opere meritino di occupare un podio letterario per quanto ciò abbia uno scarso valore di merito. Principalmente perché oggi nessuno sarebbe in grado di esprimere tanta passione e tanto stile. Chi potrebbe proporre un romanzo di emozioni viscerali, colmo di espressioni e personaggi abbaglianti senza buttarci dentro adolescenti, incesti, stupri, sangue e vomito? Chi riuscirebbe a creare un romanzo realista sui sentimenti senza somigliare a un Harmony? Onore quindi al genio di chi ha saputo fare della realtà un'opera d'arte e a chi ha decretato la loro consacrazione, nella consapevolezza che noi oggi, nella migliore delle ipotesi, della realtà riusciamo a farne una telenovela. Che Leo mi perdoni.
Poscritto. Fortunatamente nessuno al mondo ha mai davvero letto tutti e tre questi libri ciò ha fatto gioco per l'elaborazione delle mie claudicanti analisi, goffamente mascherate da opera di un critico avvertito.

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martedì 20 marzo 2007

Sono una bambina giornalista bloccata su un albero


Nella vita possono accadere cose terribili. Che uno si dice “ma perché santa cacca?”, ma le cose succedono lo stesso. Io lo so perché, ma non lo posso dire. Terribile vero?
Per esempio puoi essere un giovane uomo spinto da una spoglia casa nel tunnel dell'arredamento e, in preda al demone delle deliziose tendine, puoi finire intrappolato nell'area bimbi dell'ikea. Oppure puoi essere un quadrupede che trova una tangenziale tra se e l'odore che lo attira e finisce a farne parte (della tangenziale non dell'odore). Puoi essere uno che ha visto qualcosa che non doveva vedere o un parente di uno che ha fatto qualcosa che non doveva fare. Puoi essere un operaio della Sapiem nel delta del Niger o un'anguilla nel delta del Po. Oppure un giornalista che invece di scegliere se pubblicare o meno delle foto oscene di un uomo anziano, ha il problema di evitare bombe a frammentazione e terroristi rapitori. O peggio un tranquillo bambino terzomondiale in lotta contro la malnutrizione, che viene rapito da una pop star americana e costretto a passare l'adolescenza da mcdonald in lotta contro i trigliceridi.
Quando si è in difficoltà (nel senso di sopravvivenza non di non riuscire ad aprire il barattolo dei sottaceti) si è portati a fare alcune amare considerazioni. All'inizio interviene la non accettazione (sarebbe il rifiuto ma parlare negando gli opposti fa più saggista), il pensiero che se anche quella situazione ce la siamo andati a cercare, sarebbe stato più corretto per l'equilibrio cosmico che fosse successa a un altro. Spesso in questa fase si fa un elenco mentale di nomi da proporre. Poi si pensa a come uscirne e in particolare a chi può darci una mano. A tal proposito conta molto quello che si è stati prima di trovarsi in difficoltà. Questo determina la reazione al nostro disagio tra la gente che può pericolosamente oscillare tra il “poverino” e il “ti sta bene, crepa!”. Gli amici sono importanti, ma sono anche molto meno di quello che si pensa. Il più delle volte non saranno sufficienti per portare il feretro (a meno che non ci si faccia cremare), anche se da morti il parco amici si infoltisce considerevolmente e tutti ti inviterebbero finalmente ad uscire con loro se solo non ci fosse quell'inconveniente dell'essere un cadavere.
Quanto vale la nostra vita per gli altri lo si scopre in presenza di un'alta probabilità di perderla. Come il valore di tutte le cose del resto (tranne le obbligazioni al portatore). Ma è un valore che non ci appartiene. Non è che possiamo andare dal pizzicagnolo e dire “senta c'è un tizio che mi insegue con una pistola, mi incarta due etti di fave?”. È un valore che appartiene agli altri: un indice composto da fattori incidentali e fatali.
Parrà strano, ma in realtà ciò che si è fatto in vita conta relativamente (anzi, spesso meno si è conosciuti e meglio è). L'interesse della collettività è molto orientato alla sciagura più che allo sciagurato. Il sesso e l'età invece hanno un'incidenza rilevante (non sentirete mai dire “nel disastro hanno perso la vita anche 3 pensionati”). I canali comunicativi che si hanno a disposizione sono spesso la chiave del successo. Un giornalista occidentale nelle mani dei talebani può far mobilitare il capo del governo che può arrivare fino a rimandare il suo pisolino all'intervento di Follini delle 15. Gli operai della Sapiem in mano ai ribelli del delta del Niger possono sperare in un intervento di Enrico Lucci. Un minatore Uzbeko... be' la prossima volta fai il nobel per la medicina invece di ficcarti sotto terra (che già di per sé è un gesto malaugurante).
Chi ha denunciato mafiosi, usurai, terroristi, sacrificando la propria esistenza per la società e la giustizia riceve una pacca sulle spalle (meglio una telefonata, si sa mai) e il pensiero unanime della collettività riassumibile in “quello all'anagrafe è scritto a matita”. Una ragazza perseguitata da un maniaco può solo sentire un imbarazzato appuntato dire “mi spiace signorina, finché non le fa qualcosa non possiamo intervenire, poi abbiamo tutti gli uomini allo stadio ad impedire ai tifosi di dire negro a un calciatore”. Quando poi si ripresenta con un'accetta fra le scapole “bene signorina, ci lasci recuperare quattro turisti annoiati dallo Yemen e siamo da lei... signorina? Signorinaaa?”.
Un altro fattore ad alto peso specifico è la spettacolarità del dramma. Uno tsunami genera un'onda planetaria di solidarietà, mentre il solito genocidio nel Darfur genera un'onda di “dove?”. Anche riducendo la portata della sciagura il risultato non cambia. Il piccolo Alfredino incastrato nel pozzo artesiano fece mobilitare Pertini, ma decine di bambini leucemici in attesa di trapianto vivono anch'essi incastrati in un tunnel con poche persone, però, a fare il tifo per loro. Riduciamo ancora di più i termini: un gattino bloccato su un albero spinge improvvisati tarzan ad atti di eroismo, mentre un riccio investito spinge a controllare la coppa dell'olio. Questo mi fa pensare che più persone guardano nella direzione del fattaccio, più risorse si spendono per risolverlo.
Sono ovviamente contento della liberazione di Mastrogiacomo. Non come sua moglie, ma mi fa piacere. Del resto non so quanto la moglie di Mastrogiacomo sarebbe contenta se la mia amica trovasse i soldi per l'operazione che le serve per salvarsi la vita. Sono contento e arrabbiato quando penso a quante persone si possono salvare con lo stesso meccanismo che ha salvato il giornalista di Repubblica. Sono ancora più arrabbiato pensando che in realtà questo non è possibile a livello pratico. Quindi sono costretto a pensare che esista un imperscrutabile sistema di selezione che potrebbe essere basato su un fantozziano sorteggione in sala mensa o una forma di borgesiana lotteria di Babilonia (per quelle strane persone che quando c'è un film di fantozzi preferiscono leggere un libro), che assegna alla tua vita un valore e lo rende oggettivo anche per chi, magari, conoscendoti avvertirebbe solo lo stimolo a sputarti in faccia. Questa forma di selezione disegna un quadro molto realistico della società occidentale, un quadro che nessuno vuole guardare. E questo fa veramente incazzare.

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venerdì 16 marzo 2007

Bipolarismo a gregge


L'Italia è un paese malato. Lo si evince dai mille bollettini medici diramati da mezzi di informazione che ricordano le drammatiche trasmissioni di Radio Varsavia. Pare infatti che qualsiasi patologia (abbastanza sexy da rientrare in un telegiornale) colpisca dai 4 ai 9 italiani su 10. Solitamente si tratta di malattie non gravi ma fastidiose come una mosca: allergia al chinotto, emicrania a grappoli, insonnia isterica e prostata prostrata. Fortunatamente però sembra che nessuno abbia un tumore o la sclerosi multipla (a parte quelli che aspirano a spirare). Questo disinteresse per le malattie più serie nasconde, per esempio, un terribile morbo contagioso come uno sbadiglio che non conosce ostacoli o rimedi: la sindrome bipolare. Non mi riferisco alla patologia psicogena di cui io ovviamente soffro e che mi fa alternare momenti in cui mi sento risucchiato in un vortice di nulla che si apre sotto i miei piedi ad altri in cui mi devo aggrappare all'erba del prato per non cadere dalla terra. La bipolarità di cui parlo è la tendenza viscerale a creare due schieramenti e dichiararsi contro uno dei due.
Nulla si può fare per fermare l'epidemia. Se provaste a osteggiare il sistema bipolare creereste istantaneamente un nuovo sistema bipolare più forte, più veloce, più furbo di quello precedente. L'Italia è la culla della forma più virulenta di questa patologia: il bipolarismo antagonistico. Quello caratterizzato dal definirsi contro qualcosa o qualcuno. Prova ne è che la maggiore espressione di analisi sociale nel nostro paese è rappresentata dalla formula “quello è un cretino”.
I sintomi più evidenti sono il sentir dire da tutti gli opinionisti di riferimento “il paese è spaccato in due” e la vittoria di una delle due parti politiche grazie ai numerosi voti contro quell'altra. Un'altra manifestazione biologica della malattia è l'appellare i non contagiati con il termine “qualunquisti”. Mentre i veri qualunquisti ne approfittano per ridefinirsi “non bipolari”.
Questo fenomeno è stato studiato da competenti psicologi francesi che per definirlo hanno coniato il termine scientifico “comportarsi da pecoroni”. Per coglierne la vera essenza patologica è sufficiente soffermarsi, in una grande città, di fronte a un semaforo (regolatore delle dinamiche transitorie nel bipolarismo tra pedone e autoveicoli) attendendo che la cromia adeguata comunichi in un linguaggio universale la possibilità di attraversare senza essere integrati nel manto stradale ad opera di un tram. Capita a volte che la strada risulti sgombra da possibili investitori e, nonostante ciò, il semaforo dimostri la sua stupidità di macchinario persistendo nella sua rossità. A quel punto, tra gli astanti, cominciano a serpeggiare sguardi di sfida: “dai attraversa! Fai tanto il figo che aspetti? Vediamo se sei un uomo”. “Cosa attraverso teppista? Non vedi che è rosso? E poi sono una donna”. Qualcuno accenna dei passettini in avanti sperando di non essere notato. Il risultato è una sorta di un due tre stella da villaggio valtour. Sembra di vedere i calciatori in barriera durante le punizioni: quando l'arbitro si gira si avvicinano fischiettando al punto di battuta in modo da farsi colpire meglio da una palla sparata a 120 all'ora. Contenti loro.
Frattanto il temerario o daltonico di turno si lancia nella striscia d'asfalto deciso a raggiungere l'altra sponda incurante della segnaletica verticale. A quel punto uno tsunami di gente autodeterminata e ricolma di personalità si riversa sulle strisce sentendosi giustificata o in numero troppo elevato per essere colpevolizzata. Tutto questo proprio al sopraggiungere di altri veicoli che scateneranno l'eterna lotta di insulti e sputi tra pedoni e automobilisti in cui ognuno è convinto delle proprie ragioni finché non cesserà di essere pedone mettendosi alla guida di una vettura e l'automobilista appiedato dovrà dimostrare la sua virilità con altri sistemi di affermazione sociale.
Il bipolarismo crea anche fenomeni di rimbalzo e una volta schierati dalla parte avversa a qualcuno si tende a cercare un'identificazione che vada al di là dell'antagonismo e spesso ci si accorge di trovarsi in compagnia di gente a cui ci si sente legati solo dal fatto che “quello è un cretino”, ma che per il resto non si inviterebbe a casa nemmeno per fargli pulire la piscina.
Il morbo si insinua sin nel focolare domestico prima di raggiungere i banchi della politica. Chi non ha dovuto esprimere la preferenza su panettone o pandoro per esempio? Quelle venti persone che si trovano a casa tua a Natale (sempre a casa tua, tu non sei mai uno dei venti) in quanto parenti (si chiamano così perché ti pare di conoscerli), si spaccano in due e la fazione panettone la spunta per un solo voto. Qualcuno dice comprato con una porzione di lenticchie, ma il portavoce della fazione pandoro rinuncia con un gesto di maturità al riconteggio ed esprime la sua nobile accettazione della sconfitta con un rutto retrogusto cappone. Ma i problemi nell'esigua maggioranza panettonara non tardano ad arrivare. L'ala più estremista capitanata dallo zio Fausto e il cugino Oliviero vuole il panettone puro, senza uvetta canditi o ripieno, in modo che ogni fetta sia uguale all'altra. Ma il nipotino Antonio non è d'accordo.
Nipote: Io il ripieno ce lo voglio. Se no sembra di mangiare una ciabatta.
Zio: Il ripieno è prerogativa dei pandoriani liberisti. Razza di giovane trasformista della pasticceria. Hai degli accordi da rispettare, non metterti a fare il fenomeno solo perché un voto può cambiare il destino del carrello dei dolci.
Nipote: va bene, non voglio il ritorno dei pandori con la forfora, ma non può esserci una sola alternativa, io sono giovane voglio sperimentare. Se non si può avere né uvetta né canditi io ci voglio i gamberetti.
Cugino: nel panettone?
Nipote: sì!
Zio: impossibile, devi superare la soglia del 10% per dar vita a una corrente dolciaria.
Nipote: nonno tu li vuoi i gamberetti nel panettone?
Nonno: sì certo!
Nipote: ecco ora siamo il 18% della coalizione come la mettiamo?
Zio: non vale.
Nipote: e perchè?
Zio: nonno posso spezzarti un femore?
Nonno: sì certo!
Nipote: uff!
Zio: zitto e mangia.
Cugino: buon Natale.
Nonno: sì certo!

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giovedì 15 marzo 2007

Un buon motivo per buttarsi a fiume


Se Battiato avesse conosciuto in tempi adeguati i fabi voli i paperini moccia e i contro saturno, la famosa strofa “in quest'epoca di pazzi ci mancavano gli idioti dell'orrore” avrebbe probabilmente avuto un finale diverso.
Parentesi: Fabio Volo ha costruito la sua carriera sfrangendoci gli ammennicoli con questa storia finto umile del panettiere, cominciando ogni frase con “io sono solo un fornaio”. Ok d'accordo, bravo lui. Ha funzionato alla grande. Qualche giorno fa l'ho visto da Fabio Fazio (in quanto amico di Fabio Fazio con libro o film in uscita) e a un'innocente battuta del conduttore (quello con i capelli disegnati non l'altro) sulla questione fornaio, il Volo si è insolentito professandosi stanco di questa storia e dichiarando di non voler più sentirne parlare.
Lui è stanco??? Non ci ha fatto sorbire altro per anni e non mi sembrava si fosse troppo preoccupato di quanto fossi annoiato io. Adesso come minimo ti becchi qualche anno di prese per il culo e abbozzi pure un sorriso. Eccheccazzo!! Chiusa.
Tornando all'ondata di polenta esistenziale fritta, posso anche essere d'accordo sul fatto che al cuore non si comanda, ma nemmeno al pancreas se è per questo e ciò non impedisce di usare la capoccia e mantenere un briciolo di dignità. Il poco edificante scenario descritto in questo postromanticismo modaiolo appare formato di persone in piena crisi adolescenziale e in piena età no; il cui unico cruccio è quello di ottenere la proprietà di una persona a scelta, determinarla all'interno di schemi inadeguati ma comodi e stracciarsi le vesti in impeti di risa e pianti degni di un reality show. Soddisfatto questo desiderio personale (e già il fatto che nel mondo in cui viviamo il maggior problema delle persone sia quello di soddisfare le proprie voglie, mi sembra poco educativo) la vita diventa bella e gaia fino all'insorgere del problema inerente il liberarsi della persona che si era tanto desiderata ed eventualmente appropriarsi di un modello più sexy.
Ora io non dico che tutti debbano occuparsi di tragedie umane come la fame nel mondo, i malati terminali o i cugini di campagna, ma almeno, se proprio si deve essere egoisti, si ricerchi la propria evoluzione personale, non la dipendenza da qualcuno o qualcosa. Altrimenti non credo si debba porre l'accento o amplificare il concetto di dolore causato dall'insoddisfazione di desideri, che saranno sì sentimentali, ma sono pur sempre egoistici. Come se non bastasse accompagniamo il tutto con sani conflitti generazionali giustificati dal fatto che un padre operaio cassaintegrato con il colesterolo che fa la ola e le ulcere talmente perforanti da svegliarsi col materasso bucato, non capisce le turbitudini della figlia che non trova un senso all'esistenza se non si sdraia sotto a Scamarcio.
Come dessert, dopo polenta e contorno, abbiamo questi schemi stereotipati di rapporto di coppia basati su leve morali e un cumulo di equivoci e sottintesi, a cui si anela con voluttà per poi ritrovarcisi dentro stretti e soffocati e da cui non si riesce a liberarsi senza provocare una serie di disastri da fare invidia a una puntata di Amici.
A proposito di legami. I lucchetti non li ha inventati Moccia. Questa faccende ha due aspetti piuttosto curiosi. Il primo è la vera origine di questo accanimento sull'arredo urbano. A Merano le ringhiere che costeggiano il fiume Adige (o forse è il Passirio, non mi ricordo, chiedo il 50 e 50) sono ricoperte (vedere foto 1, c'è solo quella) di targhe e lucchetti lasciati dai militari di stanza nella zona a simboleggiare qualcosa che li tiene incatenati per 365 giorni. Il secondo punto è terribilmente freudiano (come dicono gli intellettuali più avvertiti): per quanto ci si ostini ad affermare che il lucchetto simboleggi il “per sempre” (che spesso poi è un per sempre che dura meno della naja e a volte è pure più palloso), in realtà il lucchetto simboleggia, grazie ad acrobatiche associazioni psicodinamiche, un lucchetto. Cioè qualcosa che incatena al di là della nostra volontà e da cui non ci si può liberare se non trovando la chiave giusta (simbolicamente persa nel fiume) o facendo dei danni all'arredo umano (o al limite conoscendo uno che ruba motorini).
Questo emblematico simbolo che si ritorce su se stesso fa da cassa di risonanza per quegli schemi che, dati alla mano, rappresentano oggi il fallimento dei rapporti di coppia, proprio perché la condivisione di due anime, non può passare attraverso l'egoismo, la dipendenza, il controllo, la regolamentazione e i ricatti morali, ma solo attraverso il rispetto, che non va sostituito con le regole, la fiducia, che non va sostituita con il controllo, la consapevolezza e la celebrazione di due esistenze, non la loro morte in nome di qualcosa che alla fine starà in qualche modo stretta a tutti. Appartenere a se stessi è più importante e difficile che appartenere a qualcuno, volere il bene di una persona è più complicato che desiderarla, fare un percorso insieme, giorno per giorno, è più vero, intenso e arduo che seguire regole che tengono incatenati come un lucchetto. Un lucchetto che esprime il suo vero significato solo quando viene rotto, perché è testimone e prova di un reato. Perché identifica un colpevole.
Se il libro di Moccia viene addirittura fotocopiato (destinando il toner delle fotocopiatrici delle segreterie a scopi meno nobili del sempre sacro fotocopiarsi le chiappe) significa che pochissime persone la pensano come me (ed è già tanto che uso il plurale). Per fortuna i fatti sono dalla mia parte e date pure a “fatti” l'interpretazione che più trovate acconcia.
La prossima volta che volete attaccare tre etti di ferro da qualche parte, fatevi un piercing. Tanto, come dicono sempre gli uomini di mondo, se vogliono rubarti la bici, te la rubano anche se c'è il lucchetto. Oppure tenete una chiave di scorta o al limite usate il corso di sub che avete fatto a Sharm per immergervi nel Tevere e recuperare quella che avete gettato. Non saranno acque cristalline, ma tanto a quel punto nella merda ci sarete già.

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martedì 13 marzo 2007

Viva l'agnoranza


"L'ignoranza è una benedizione, ma perchè la benedizione sia completa l'ignoranza dev'essere così profonda da non sospettare neppure se stessa"
EAP

I latini, che hanno campato per secoli coniando frasi da consegnare alla storia che affondano radici di saggezza nel fatto di essere state scritte in una lingua morta, dicevano ignoramus et ignorabimus (in realtà l'ha detto un francese ma siccome è in latino lo dicevano i latini). In una lingua viva o al limite agonizzante corrisponderebbe a dire che l'uomo non è in grado di giungere alla conoscenza degli elementi ultimi del reale. Per me, che non sono in grado di giungere a conoscere nemmeno il mio vicino di casa, è una notizia in qualche modo confortante. Se fosse vero significherebbe che una sorta di ignoranza è ineluttabilmente parte di tutti noi. Del mio vicino di casa sicuramente, per il resto non so... lo ignoro. Ma se consideriamo che l'ignoranza è assenza di conoscenza in un soggetto che tuttavia è in grado di intendere, ci tocca stabilire prima chi sia in grado di intendere, per potergli poi dare dell'ignorante. La questione è complessa e l'uomo ha spesso confuso le cose. Per esempio Sant'Agostino sosteneva che melius scitur Deus, nesciendo (Dio si conosce meglio nell'ignoranza), ma detto da un santo che qualcosa sapeva (sicuramente il latino per esempio) suona incomprensibile. Molti dotti pensatori a cui tutto si poteva dire (per esempio che co' sto latino hanno proprio rotto) ma non che fossero ignoranti, hanno cantato le lodi del non sapere, nel senso più puro del termine. Cioè nel senso in cui rappresenta una sorta di imene dell'anima, una verginità persa la quale qualcosa cambia per sempre, si supera un punto di non ritorno e spesso anche di non ricordo.
Per esempio Giordano Bruno (omonimo del noto calciatore) diceva l'ignoranza è la madre della felicità e beatitudine sensuale. Insomma difficilmente sentirete l'ignoranza elogiata da un ignorante come la povertà da un povero, con la differenza che il povero conosce la propria condizione di povero mentre l'ignorante no (a meno di lacune nella sua ignoranza).
Invece le istituzioni sociali condannano la non conoscenza. Infatti ti obbligano ad andare a scuola e se vai male ti danno voti bassi. In quel caso tuo padre si recherà dal preside per spiegargli a ceffoni le tue problematiche culturali e una volta di fronte a un giudice non potrà dire “non sapevo fosse vietato sciupare i presidi”, perché per la legge l'ignoranza non è un alibi ma una colpa.
Questa ultima considerazione mi ha portato a rilevare quanto contrasti con lo sfruttamento che le stesse istituzioni fanno dell'ignoranza. Esempio. Si fa un gran parlare del fatto che il 30% degli incidenti stradali avviene a causa dell'abuso di alcol o droga. Curiosamente nessuno parla del restante 70% sebbene, calcolatrice alla mano 70 parrebbe essere di gran lunga superiore a 30. Purtroppo quasi tutti gli incidenti stradali avvengono perché qualcuno non sa guidare. Non nel senso che non sa coordinare i piedini sui pedali e le manine per roteare il volante, ma nel senso che non sa come si sta in strada. Le istituzioni intervengono massicciamente in questa drammatica situazione aumentando vorticosamente le multe (fino ad oltre 10 mila euro) e i rilevatori di infrazioni stradali (cioè i generatori di multe). Facendo praticamente niente per contrastare l'ignoranza, anzi proteggendo il patrimonio che rappresenta. Prima di portare le sanzioni all'ipoteca sulla casa bisognerebbe affrontare la realtà composta di gente che non solo non sa perché certe cose in strada non si devono fare, ma non sa nemmeno che non si devono fare (fatevi un giro in autostrada nei week end e divertitevi). Oppure può capitare di trovarsi in città dove sono state piazzate telecamere che ti inquadrano e decidono se sei presenza gradita, in caso contrario, invece di dire “oh te sei antipatico vattene” fanno versare tanti euri nelle casse dei simpaticoni. Il tutto basato sul fatto che un non autoctono difficilmente potrà sapere di poter circolare solo dalle 23 alle 3, ma nei giorni dispari che cominciano per m e solo con la barba ben rasata e imbattersi in qualcosa o qualcuno che dia informazioni chiare è una speranza vana.
Ma ci sono tanti esempi di manovre indirizzate all'ignoranza. I testi dei referendum abrogativi, le chiacchiere dei politici, i giochi d'azzardo legali, tutti i sistemi di silenzio assenso. Quest'ultimo è un mondo da scoprire. Con la nuova legge sul TFR (che non è un treno ma il trattamento di fine rapporto) se un poveraccio non sa esattamente che cosa deve fare e quando, vedrà finire i suoi soldi nelle casse dell'azienda che, vedendo il poveraccio avvicinarsi, li passerà all'INPS che li terrà sospesi fuori da una finestra del dodicesimo piano sfidando il lavoratore con “li butto eh, li butto!”. Finché, povero e solo passerà a miglior vita (peggiore era difficile) e ignorando in vita che avrebbe dovuto dichiarare qualcosa riguardo l'espianto degli organi, gli verrà sfilato un fegato, tre ginocchia e mezzo scafoide (e anche sulle procedure di espianto le persone sanno pochissimo per motivi comprensibili). Tutto questo perché qualcuno ha tristemente rilevato che in Italia ci sono molti più ignoranti che generosi e le liste di attesa per i trapianti risentivano dell'accanirsi nello sperare sui secondi piuttosto che puntare sui primi.
Sappiate tutto quindi, oppure ignorate ogni cosa, perché se conoscete solo in parte è un disastro.
So (almeno credo) di aver già fatto troppe citazioni in questo post, ma non posso esimermi dal chiudere con le parole del grande filosofo clerical-ciociaro Don Buro “quant'è bella l'ignoranza se stai bene de testa de core e de panza”

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giovedì 8 marzo 2007

Ho deciso di scendere in campo


Mi chiamo Navarro e faccio il calciatore. Non sono forte e famoso tanto da fare la pubblicità di un paio di scarpe o da andare in televisione a dire la vita è adesso (come Totti non come Baglioni). Però gioco in una grande squadra. Diciamo che non ho seguito il consiglio di Cesare (Giulio non Maldini) che sosteneva essere più dignitoso fare il primo in un paesino che il secondo a Roma. Così gioco poco e guadagno tanto. Ho collezionato talmente tante panchine che potrei arredare un parco cittadino. Ammetto però che a lungo andare girano le palle e non parlo di quelle sul campo di gioco. Coi soldi ci puoi comprare il Cayenne, ma una cosa che ti fumi e ti passa la frustrazione non la vende nemmeno il medico sociale della mia squadra.
Capita così che al termine di una partita della fase finale della coppa dei campioni, quella giocata dai più bravi tra i bravi, mi alzo dall'odiata panchina (che anche se non è più di legno a strisce ma di pelle di velina firmata recaro, fa venire lo stesso il culo a strisce e capita pure di trovarci delle schegge di legno) e mi dirigo colmo di rabbia repressa verso un giocatore avversario. A causa della mia tendenza alla sportività (sono un calciatore, mica un ballerino di tip tap), tra i tanti che in campo emanavano feromoni come licaoni in calore, ho selezionato il più basso che, incidentalmente era l'unico mantenuto fermo da una dozzina di compagni di squadra. Sopraggiunto nei di lui pressi mi sono sentito in dovere di renderlo partecipe della problematica inerente l'esasperazione del concetto di vittoria generato da un malsano sistema di valori e della conseguente spirale di violenza che dai campi di gioco passa agli spalti, dagli spalti alle città poi porta alla sacrestia, quindi alla cattedra di un tribunale, giudice finalmente, arbitro (cornuto) in terra del bene e del male.
Lì per lì il modo migliore di spiegare tutto ciò nella cambogia che si era creata mi è sembrato quello di assestare un destro dimostrativo, chiaro e diretto, con l'unico effetto collaterale di fratturare un setto nasale. Avrei voluto rimanere lì a sentire che ne pensava il mio onorevole interlocutore, ma in quel preciso istante ho sentito l'esigenza di correre senza una traiettoria precisa sui prati verdi dello stadio (visto che il mister non me lo fa mai fare), esprimendo la mia gioia interiore con un sorriso solo all'apparenza ebete. Ero felice. Perché molti altri calciatori come me, famosi e meno famosi (io meno, come avrete capito) hanno seguito il mio esempio e correvano dietro di me con lo stesso animo giulivo.
Purtroppo qualcuno ha frainteso le mie intenzioni e le menti semplici hanno percepito solo un panchinaro che senza motivo ha colpito da vigliacco un avversario che non poteva difendersi e che poi è scappato ridendo come un seienne che ha appena suonato dei citofoni a caso. A causa di questa gente semplice ora vogliono squalificarmi per cinque giornate. La cosa ha leggermente scosso la mia dignità di calciatore, ma il provvedimento non cambierebbe di una virgola il mio minutaggio in campo e mi consentirebbe di fare una capatina al billionare per mondare le mie colpe e trovare la forza di perdonare.
Se io fossi una persona di buon senso potrei pensare che cinque giornate di squalifica non sono niente. Che forse uno come me non dovrebbe fare sport. Cioè magari potrei andare a correre la domenica mattina nel parco cittadino (quello con le panchine), ma non dovrei rappresentare l'elite dello sport perché violenza gratuita, codardia e stupidità non hanno nulla a che fare con i valori della sportività e i ragazzini che sognano la coppa dei campioni guardano anche gente come me, anche se sto seduto a bordo campo. Sull'onda di tutta questa intelligenza penserei anche che forse non è giusto che noi calciatori bravi e fortunati veniamo tutelati in questo modo. Che forse un giocatore di hockey su prato di terza categoria amici degli amatori, se da un pugno a un avversario lo mandano a casa per un anno. Potrei anche pensare (ci sto prendendo gusto) che fare il calciatore è il mio mestiere e che se facessi lo sportellista alle poste e dessi un pugno in faccia (avete notato che coniugo verbi come uno grande?) a un postino avversario o a un cliente, probabilmente dovrei trovarmi un altro lavoro. E a volte uno sportellista delle poste ha più motivi di un calciatore per menare le mani.
Ora dovrei smetterla perché se continuo con tutto questo scavare nei ragionamenti potrei arrivare a pensare che invece di cinque giornate di stop dovrei passare un po' di tempo in miniera (con tutto il rispetto per i minatori).
Io comunque ho chiesto scusa. Anche se, sempre in accidentale presenza di raziocinio, potrei considerare queste scuse solo una forma di captatio benevolentiae (una forma di che?? è un formaggio svizzero?) perché uno si scusa di un atto involontario, un errore non voluto, un momento di follia. Io mi sono alzato dalla mia panca di legno recaro con l'idea di andare a rompere il naso a un tizio che non mi aveva fatto niente e poi sono scappato ridacchiando. Quali scuse posso avere? Forse la cosa più furba sarebbe riguardare quello che ho fatto (tanto le indignatissime televisioni di tutto il mondo lo rimandano come fosse una cosa importantissima, chessò, un fallo di mano in area) e riuscire finalmente a vergognarmi e a vedere tutto ciò che non è sport in ciò che faccio insieme ai miei amici calciatori famosi (seduti e in piedi). E chissà magari il calcio tornerebbe ad essere come l'hockey su prato: uno sport. E non si vedrebbero più bambini di 10 anni scimmiottare i grandi e rotolarsi lamentandosi di un fallo mai subito reggendosi il parastinco firmato.
Penserei tutto questo, ma per fortuna sono un calciatore.

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martedì 6 marzo 2007

Oh (gianni) bella ciao


Io sono gente che non si cura del Festival della canzone italiana però, come ha diagnosticato Postatore Sano, ne so davvero troppo per far parte di quel tipo di gente. Nell'imbarazzo di decidere se questo fatto sia più o meno strano del trovarmi d'accordo con Postatore Sano, ho deciso di elencare tutto ciò che so di Sanremo (inteso come agone musicale) giudicherete voi, mandando un sms con il mio codice, se il mio bagaglio nozionistico sul Festival sia adeguato alla mia italica cittadinanza.
So che c'era una giuria di qualità, ma non so che cosa significhi. Affidandomi alla grammatica più spicciola immagino si tratti di una giuria di alto valore, il che mi porta a chiedermi chi abbia giudicato la qualità della giuria. Forse giuria di qualità è un modo fesso di dire giuria della qualità, ma da come sono andate le cose è facile che io mi sbagli.
So che Pippo Baudo (il cui nome deriva da un'attività molto diffusa nel popolo dei rotocalchi che pare sia dedito a... baudare), ogni volta che nominava il giurato Alessandro D'Alatri, aggiungeva la postilla “regista” connotando sì la di lui professione, ma sottolineando che in Italia un bravo regista è meno conosciuto di un dj o una soubrette.
So che codesta giuria (la cui competenza artistica era garantita dalla presenza di Coccoluto) è stata accusata di fare politica, in particolare rifilando una pagella degna di Alvaro Vitali ai fratelli Bella (bella fratè!) rei di essersi esibiti in una canzone troppo sempliciotta o, a scelta, di essersi candidati nelle liste di Alleanza Nazionale. E si sa, gente come Palombelli, Parietti e Ghini le canzoni sempliciotte non le sopportano proprio. In effetti il motivetto non mi ha spinto a dimenare ritmicamente le mie stanche membra, mi permetto quindi di arguire che se voto politico è stato, si possa configurare come raro esempio di sana politica.
La valutazione che sto ancora cercando di capire è invece quella di Paolo Rossi. Il comico presentatosi un po' alticcio (sebbene prossimo alla nanità), tanto che ho temuto scendesse le scale sfruttando un connubio tra la forza di gravità e il mento, ha presentato un inedito di Rino Gaetano (che per qualche avveduto motivo lo stesso Gaetano preferì mantenere inedito) sfruttando le doti canore tipiche di un comico. La giuria di qualità ha alzato palette manco ci fosse stata la Comaneci su una trave non lesinando sui 10. Ora, se la matematica non è un ombrellone, in una scala da 1 a 10, 10 rappresenta ciò che è insuperabile, il meglio in circolazione nel contesto in cui si sta facendo la valutazione. Può essere che Paolo Rossi sia di sinistra, così come lo è la memoria del grande Rino Gaetano, può anche essere che in gara non ci fosse Berry White, ma resta il fatto che se i giudici della più importante manifestazione canora italiana impalmano Paolo Rossi come miglior artista o c'è qualcosa che non va o tra un po' vedremo Battiato a Zelig (e secondo me nemmeno sfigurerebbe).
So anche che ha vinto (sia tra i giovani che tra i vecchi) una canzone “impegnata”, che affronta cioè un argomento sensibile, una ferita sociale ancora aperta. In particolare Cristicchi ha preso un'altra sua canzone socialmente utile (quella sulle studentesse tristi e sbadatamente incinte), ha tolto le parole e le ha sostituite con quelle inerenti i centri di igiene mentale, tema già affrontato da Don Backy e Detto Mariano (che è una persona non uno pseudonimo e nemmeno un aforisma della madonna) eoni fa, quando i manicomi erano manicomi e le case discografiche si spaventavano se non parlavi di amore, mamma e s'imme 'e napoli paisà. Posto che il buon Cristicchi meritasse di vincere, sicuramente più di Paolo Rossi o dei Jalisse, mi insolentisce un po' questa spettacolarizzazione dell'impegno civile. Non tanto perché conosco bene il mondo indescrivibile dei settori psichiatrici (non vi stupisce eh) e ovviamente quando uno conosce bene una cosa se ne ha a male se qualcun altro ne parla. Ma soprattutto perché il Pippo nazionale ha detto che Cristicchi poteva farlo perché fa volontariato per i malati di mente. Questa inutile precisazione dotata di coda paglierina, mi è parsa un po' ipocrita. Io sono ben felice se un artista esprime qualcosa “di rottura” o di denuncia, ma utilizzarlo per gareggiare in una competizione a premi, mi sembra un controsenso. Molti hanno comunque tributato successo e plauso al testo importante di Cristicchi e anche a quello del giovane Moro e molti di questi molti si dimenticheranno domani della mafia e dei malati. Non tutti per egoismo o disinteresse però. Per alcune persone è già eroico sopravvivere e affrontare una realtà destabilizzante come un settore psichiatrico non è nelle loro corde. Per questo sbattere in faccia genericamente un certo tipo di impegno ottiene una leva vantaggiosa che non sempre trova il suo fulcro sui buoni sentimenti.
So anche che molti si sono fatti distrarre dal “movimento de panza” della paranza di Daniele Silvestri, etichettando la canzone come motivetto leggero e figlio di una cultura di tormentoni da spiaggia. Grave errore. Silvestri è uno dei veri maestri pigri della parola. Una mente che gira ad alti regimi e per questo ha pochi stimoli. Ma quando si esprime mette insieme esercizi di stile assolutamente degni di nota con concetti che ti inchiodano, ti attraggono con la simpatia e ti lasciano ai margini di un baratro. Il tema affrontato è purtroppo qualcosa di cui nessuno vuole sentire parlare. La vera essenza della precarietà degli schemi che sorreggono i rapporti umani, i meccanismi e le disumanità che si accettano per quieto vivere. Ma soprattutto getta in mezzo ad assonanze ipnotiche una legge ferrea quanto ignorata della consapevolezza e dei rapporti interpersonali “la panacea di tutti i mali è la distanza”. Senza contare che “uno di Cogne andrà a Taormina in prima istanza” mi ha spinto a leccare il televisore al plasmon.
So, per finire, che probabilmente per rimanere in tema con la canzone vincitrice gli organizzatori della manifestazione hanno affidato la presentatrice svizzera a gente con seri problemi di equilibrio e parallasse. Va comunque reso onore all'impresa artistica: sono riusciti ad imbruttire la donna meno imbruttibile del mondo!

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domenica 4 marzo 2007

Compagni di banco(ne)


Non capita solo a Cruman di perdersi nei suoi pensieri. Talvolta capita anche a me di perdermi nelle sue elucubrazioni, specie quando leggo i suoi post nei luoghi più disparati e disperati. Col portatile al cesso, con il Blackberry dal treno, ecc. Proprio per questa mia abitudine mi succede spesso di terminare la lettura di un suo parto e avere gente attorno (più mentre sono in treno che al cesso), cosa che inevitabilmente mi porta a riflettere e a cercare di capire come possano essere variegati i modi di pensare.
Stavolta, complice una fugace colazione al bar (abitudine che non mi appartiene vista la mia irritabilità di prima mattina, incompatibile con baristi troppo espansivi e avventori chiacchieroni), mi son trovato ad avere un riscontro pressoché immediato delle sue teorie e soprattutto dell’attualità degli argomenti trattati. I miei vicini di bancone, infatti, fieri di onorare il cliché che vuole donne e motori come un argomenti sempre attuali, stamattina hanno deciso di occuparsi della presentatrice del festival di San Remo e di macchine – guardacaso BMW come quelle degli zingari. Ma andiamo per ordine. Se il mio campione statistico (Enrico, 36 anni, agente di commercio) è rappresentativo, il festival di San Remo quest’anno è arrivato a turbare il sonno di milioni di italiani, anziché conciliarlo come ha sempre fatto. Non sono infatti le doti canore degli artisti a tenere banco (anzi bancone) nei discorsi da bar bensì il compenso astronomico della conduttrice Michelle Hunzicker, che percepirà una cifra prossima al milione di euro per il lavoro svolto nella città dei fiori. Addirittura più di Pippo Baudo. Grazie tante, alzi la mano chi – potendo scegliere – darebbe più volentieri dei soldi a Pippo anziché all'elvetica biondina. Il fronte degli scandalizzati è compatto e le motivazioni non mancano. Quella più gettonata sostiene che un compenso simile sia assolutamente immorale in ragione del fatto che è erogato attingendo dal gettito del canone Rai, il cui pagamento – come noto, e come Cruman ha più volte sottolineato - è tutt’altro che facoltativo. Ma siamo pazzi? Ma lo sapete quanti film di Lina Wertmuller si potevano finanziare con tutti quei soldi? Nessuno, ci voleva almeno tre volte tanto. E il culo della showgirl svizzera non era previsto. Eppoi, che dire del messaggio che si trasmette alle famiglie? Una ragazza normale, quella cifra, non la porta a casa in una vita intera (anzi, è già grasso che cola se si riesce a non spenderla per allevarla, da cui il detto “costa come una figlia femmina”). Di questo passo arriveremo ad avere mamme che spingono le figlie dodicenni a buttarsi a capofitto nel mondo dello spettacolo anziché nello studio o nella droga come è consuetudine. Meno male che è un caso isolato e non ci sono altri esempi simili, per dire, nel mondo del calcio. Penso proprio che non reggerei a sapere che compensi milionari vengano erogati anche a ragazzi che giocano a pallone e non devono nemmeno sorbirsi il dopo festival per contratto. Ma questo a Enrico, 36 anni, agente di commercio, non l’ho detto. Sempre a proposito di giovani milionari, mi ricorda Paolo, 44 anni, negoziante, c’è un altro evento che questa settimana (domenica scorsa, per la precisione) ha proprio lasciato il segno. Da appassionato di moto per nessun motivo al mondo mi sarei perso la giornata di prove libere a Jerez della Frontiera, vero debutto stagionale dei protagonisti della motoGP. In occasione di questo evento, ovviamente per motivi pubblicitari, il pilota che fa segnare il miglior tempo sul giro si aggiudica un'auto molto sexy. No, non una Panda, una BMW Z4 coupè. Tralasciando il fatto che chiunque la vinca, in quanto pilota partecipante al mondiale e pertanto non esattamente con le “pezze ar culo”, aggiungerebbe solo un destriero a una già nutrita scuderia, ciò che è successo domenica deve aver letteralmente sconvolto le folle (per semplicità si consideri una folla composta da tanti Paolo che la pensano tutti come l’omonimo negoziante). La Z4, infatti, l’ha vinta Valentino Rossi, che per festeggiare l’evento ci è salito sopra (non al posto di guida, proprio sul tettuccio) con l’immancabile bottiglia di champagne, ammaccandola visibilmente (la macchina, non la bottiglia). Visibilio immediato e indignazione totale a seguito del folle gesto: danneggiare così, con noncuranza, un’auto di lusso è davvero un’offesa alla povertà, urla la folla. Ma fammi capire, Paolo, tu che ne sai: al di là che già di per sé la Z4 coupè è un insulto alla povertà e che se fosse successo a me di vincere un’auto del genere non solo non ci sarei salito sul tetto ma probabilmente non avrei nemmeno osato sfiorarla senza prima aver indossato i guanti di seta per paura di graffiarla, non è ben peggio quello che accade una sera imprecisata della settimana sotto la supervisione di Teo Mammuccari? A me pare che lì non solo alle auto si faccia ben di peggio, ma pure con l’aggravante che non è il neo proprietario (disponendo liberamente di qualcosa che ha vinto) a danneggiarle, bensì una folta schiera di sfidanti incazzati per aver perso il primo premio. La metterei nel tuo salotto, caro Paolo, la bomba di vernice, e la farei scoppiare tutte le volte che soddisfatto ti godi la scena davanti al tuo televisore e ti compiaci. Non ti dico che farei con lo scalpello a percussione perché sono un signore. Ho il fastidioso sospetto che in questo caso, dato che di fatto viene consentito di dar libero sfogo all’invidia, in qualche modo il telespettatore medio possa ottenere una rivalsa sul fortunato vincitore e questo porti come automatica conseguenza il mitigarsi dell’indignazione.
Insomma Paolo, Enrico, come la vogliamo mettere? Com’è che vi indignate tanto di ‘ste due cose (perdonatemi se non partecipo tutti i giorni, chissà che mi perdo il lunedì mattina…) ma non di tante altre? E soprattutto, lo sapete che se non vengo mai al bar la colpa è anche un po’ vostra?

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venerdì 2 marzo 2007

Parole sterminate


A volte mi perdo tra i miei pensieri il che la dice tutta sul mio senso dell'orientamento. Lo smarrimento interiore è comunque un passo evolutivo da non sottovalutare, considerato che c'è gente che compie traiettorie impercettibili (codici di geometrie esistenziali) per trovare se stessa e per poi potercisi perdere dentro. Alcuni arrivano persino ad andare in Danimarca in moto per poi non trovarsi e scoprire che è molto simile a Modena Sud. Mentre ero lì (tra i miei pensieri, non a Modena Sud) sono rimasto dieci minuti buoni a bearmi di una folgorazione: ho realizzato, per motivi di non facile definizione, che il nome Eugenio deriva dalla radice greca eu (bene, buono) e da gens (nascita) e quindi nomina ciò che è ben nato. Mi chiedo se i genitori di Eugenio Bennato (cantautore poco noto fratello di cantautore invece molto) abbiano consapevolmente chiamato il loro figlio semplicemente traducendo in greco il suo cognome. Sapranno di averlo chiamato Bennato Bennato?
Ricordate i Jalisse? Non importa tanto neanche loro si ricordano di voi. Magari però ricordate la loro canzone con cui hanno vinto un festival di sanremo e un buono “prendetemi in giro” valido per tutta la vita (del pianeta): fiumi di parole. Ecco per qualcuno le parole sono un fiume impetuoso su cui praticare rafting estremo, per altri un laghetto immobile e poco profondo, uguale a se stesso in ogni angolo. Di quelli che fanno pensare che, tirandoci un sasso dentro, vadano in mille pezzi come un vetro.
Se le parole potessero parlare creerebbero senz'altro un interessante fenomeno di ricorsività, ma sicuramente avrebbero una voce ambigua. Una loro sfumatura può cambiare il destino dell'umanità: un popolo sterminato può essere una moltitudine o ridotto a pochi superstiti, scegliendo tra aggettivo o verbo orfano di un complemento devastatore. E l'ambiguità degli uomini amplifica quella delle parole, semplicemente usandole senza troppa attenzione o con troppa ferocia.
Quando, per esempio, sento dire che un evento nefasto ha generato un certo numero di vittime e un numero maggiore di feriti, mi chiedo come mai i feriti non abbiano una dignità sufficiente a farli considerare vittime anch'essi. Perché vittima è una schifezza di parola per dire morto. Come ambiente è una schifezza di parola per dire natura, già opportunamente sottolineato da Postatore Sano.
E mi “dico” spesso che il matrimonio tra uomini deve avere caratteristiche genetiche a me ignote, se è vero come è vero che matrimonio ha qualcosa a che fare con la maternità.
Ci sono parole poi che vengono forzatamente rese qualcos'altro, qualcosa che non sono e poi si approfitta della loro nuova identità. Nomadi: nel dizionario divano-televisione televisione-divano indica un gruppo di persone dedite al parcheggio abusivo in roulotte e se prendi la coda di volpe posticcia vinci un altro giro. I più avvezzi ai lemmi di uso corrente possono arrivare a descrivere ulteriormente il termine con sfondi di bmw gialle e bambini furtaroli. Ma le caratteristiche socio culturali dei popoli dediti al nomadismo si sono perse sugli autoscontri.
Questa almeno è la spiegazione che mi sono dato quando ho appreso che il ministro Ferrero ritiene appropriato assegnare ai nomadi di Milano delle case di edilizia residenziale pubblica, perché le loro condizioni di vita nei campi omonimi non sono più accettabili (nemmeno quelle di chi ci vive limitrofo, a quanto pare). Quindi nomadi fermi. Come insegnava Umberto Eco nel corso di urbanistica tzigana alla facoltà di irrilevanza comparata.
Anche nel mio ameno paesello hanno costruito alloggi per ospitare gli zingari da tempo accampati ai margini del comune. E si sono anche lamentati: pare che le finiture non fossero molto curate e che risultasse difficoltoso agganciare i bilocali alle mercedes. Il mio vicino di casa che fa l'operaio turnista ha acceso un mutuo per pagare il mutuo della casa e se tutto va bene dovrebbe finire di versare interessi di interessi ricapitalizzati quando il discioglimento delle calotte polari avrà sommerso tutta la bassa padana con le sue balere estive. Purtroppo, essendo stanziale di nascita non ha diritto a una fissa dimora, una casa pubblica. Almeno secondo i gestori della cosa pubblica.
Tanto per rimanere nell'ambito istituzioni, mi piacerebbe anche sapere che fine abbia fatto il significato della parola abbonamento. La Rai sostiene che io sia abbonato al loro servizio pubblico. A parte che se è un servizio pubblico non vedo perché io mi ci debba abbonare, al limite pagherò un ticket. Ma visto che trattasi di tassa obbligatoria, non credo sia corretto (dal punto di vista “significato – significante”) parlarne come di un contratto liberamente stipulato tra me e una controparte. Io in televisione guardo solo Telemarket per godermi la piacevole sensazione di non comprare un De Pisis e questo mi obbliga a “abbonarmi” a un servizio che non uso.
Ma poniamo il caso che in un mondo perfetto il servizio televisivo pubblico renda davvero un servizio utile: io sarei ben contento di partecipare al suo sostentamento, con una “tassa” che è poi quella che spacciano per “abbonamento”. Che qualcosa venga evidentemente storpiato lo si desume dalla simpatia con cui gli spot televisivi ci ricordano di pagare l'abbonamento, in rapporto al terrorismo espresso in lettere minatorie inviate da esattori senza scrupoli che minacciano (in caso di mancato saldo del pizzotv) di mandarti a casa una squadra swat con l'ordine di rinchiuderti in un posto terribile tipo Frosinone bassa ed espropriare la tua casa... per darla a una famiglia di nomadi.
Non c'è peggior sordo, di chi non ci sente.

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giovedì 1 marzo 2007

Una stella come tante


Mi chiamo Stella, sono un'insegnante di religione. No, non mi interessa che avete scelto di non avvalervi, adesso mi ascoltate come avete ascoltato tutti quei servizi morbosetti sul professore sessualmente indeciso e sulla supplente invece meno. Ma partiamo dall'inizio.
Per motivi che si perdono nelle piogge dei poteri temporali l'insegnamento della mia materia è istituzionalmente IRC (insegnamento religione cattolica) indi per cui non obbligatoria. Se durante la mia ora si facesse etica, storia delle religioni e compagnia bella, non diventerei una educatrice facoltativa, come succede in diversi paesi europei, ma obbligare la catechesi non è politically correct. La notizia però è che nelle mie lezioni e in quelle dei miei colleghi si fa proprio etica, storia delle religioni, educazione civica eccetera. Risultato: noi siamo figure precarie perché in teoria insegniamo una materia facoltativa, pur insegnandone una obbligatoria. Primo mistero gaudioso.
Dal punto di vista didattico contiamo come il due di coppe con briscola a bastoni. Il nostro voto non fa media e le alternative alle nostre lezioni sono andare a casa prima, venire a scuola dopo, appoggiarsi al bancone del bar dell'istituto e praticare fori nel tramezzo dello spogliatoio delle ragazze. Ardua scelta. Mentre, per esempio, in Germania chi non si avvale dell'insegnamento della religione fa etica, educazione civica e via discorrendo. Proprio le cose che noi non dovremmo fare per via dell'IRC, ma che in realtà facciamo per via del politically correct. Secondo mistero gaudioso e pure un po' buffo (del resto io fo' religione).
Non è inconsueto ritrovarsi in classi di trenta ragazzi perché il ministero deve risparmiare per pagare 28 sottosegretari. Tra questi (i ragazzi non i sottosegretari) dieci seguono altre religioni, dieci scappano da tutte, cinque sono disadattati e l'unico equilibrato viene pestato con una apprezzabile metodicità. Non mi vergogno a dire che non sono preparata a tutto questo. L'insegnante di religione diventa spesso un consulente psicologico, ma nessuno mi ha mai dato le risorse per seguire i giovani che sono sempre più pazzi (volevo dire problematici, ma pazzi è più acconcio). I professori delle altre materie se ne infischiano. Loro hanno un metodo educativo e disciplinare molto efficace e professionale: “fai come dico io o ti boccio”. Io posso arrivare a “fai come dico io o dico un'altra volta fai come dico io”. Durante la mia ora se non devono studiare per qualche compito in classe, svolgere attività di igiene personale o insidiare virtù varie, sfogano tutti i loro dubbi, le loro rabbie, la loro voglia di imporsi.
Insegno da 17 anni e i ragazzi sono cambiati. Meno concentrazione, più superficialità, fretta, quantità e poca qualità. Il problema è che rispecchiano qualcosa, non sono così casualmente. I genitori (spesso troppi più di 2) li affidano a noi come si affida a un addestratore un cane che non da la zampa. Salvo poi difenderli anche se sbranano un bidello. L'alcool e la droga sono paurosamente dilaganti... il sesso li annoia già a diciassette anni, tanto che le ragazze si spogliano in maniera proporzionale al disinteresse che suscitano, arrivando ad indossare francobolli (il che da un nuovo senso a certe pratiche sessuali). Paradossalmente i più dissoluti sono quelli provenienti da culture cattoliche alla faccia di chi dice che il cattolicesimo è opprimente, bigotto e restrittivo. Gli evangelici, i protestanti, i mussulmani hanno invece un pudico senso di rispetto, quasi un timore.
Insomma le famiglie fanno la loro parte, dando sempre tutto, salvo poi lamentarsi della perdita di controllo (che si argina con un cellulare da 600 euro) ed affidarsi alla scuola. La scuola punta tutto sulla frenesia, la quantità di scarsa qualità: corsi sperimentali, di ceramica spaziale, teatro no, scambi ludoculturali, tutto ammassato, tutto per far bella figura come istituto ed attirare iscrizioni e soldi. Per questo stesso motivo la dirigenza tende a difendere i ragazzi, già spalleggiati dalle associazioni genitori aumentando in loro un pericoloso e irreale senso di potere e diminuendo drasticamente la mia possibilità di gestire questo immenso puzzle di razze, lingue, religioni, ormoni, capacità e incapacità.
Non sono goldrake, sono una donna e provo a fare del mio meglio senza essere messa in condizioni di fare ciò che si pretende da me. Un ragazzo che ha problemi ha insegnanti di sostegno, corsi di recupero e programmi speciali. Per noi non c'è niente. Puoi anche impazzire, ma tutto quello che puoi ottenere è una bella denuncia, un filmino su internet e un processo mediatico sommario, giusto a metà tra il periodo dei pruriti degli adolescenti e il boom delle inchieste shock.
D'accordo mi sono sfogata un po', ma ci tengo a dire che il diavolo non è così brutto come lo si dipinge (durante il corso di pittura olistica). Il rapporto con i ragazzi, anche se non con tutti, può darti molto dal punto di vista umano. Se riesci a non farli allontanare e non farli avvicinare troppo, al punto di metterti le mani nei pantaloni, diventi una sorta di punto di riferimento. Il che significa stima e considerazione. Il che si traduce in meno persone che ruttano in classe. Ma soprattutto significa servire a qualcosa, far considerare dei valori, uscirne arricchiti e spendere molto meno in benzodiazepine.
A causa di un bislacco evolversi della situazione della didattica italiana e degli stili di vita familiari, il ruolo di insegnanti come me è stato sempre più spinto a sovrapporsi a quello di un educatore, ma di tutti i genitori disperati con cui ho parlato, che si sentivano inermi di fronte alla refrattarietà dei propri figli verso una qualsiasi forma di disciplina, se ne trovano pochi che capiscono che se due genitori che si occupano di un ragazzo non ottengono risultati, è praticamente ridicolo che una sconosciuta in un'ora a settimana abbia successo con centinaia di “figli”.
Non voglio dilungarmi in anacronistici discorsi “missionari”, anche se solo la passione, la forza interiore e il credere in qualcosa possono spingerti a resistere e a continuare a provare. Però ora che è molto di moda il “dagli al professore” pensateci bene prima di giudicare una persona da un titolo ad effetto fatto ad arte per sfruttare proprio quella mancanza di valori di cui tutti si lamentano.
Ora devo andare, io non posso non avvalermi, anche se non c'è più religione.

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