lunedì 31 marzo 2008

Stato pietoso


Ogni italiano si porta dietro una croce, ma non crediate, compagni di sventura, che apporla su un simbolo vi liberi del suo peso. Per che Stato andremo a votare? Forse uno stato di facciata. Di sicuro l’ennesima facciata la prenderemo noi rimanendo nel consueto stato pietoso.
Cerchiamo di fare un volo radente sui misteri che avvolgono le più grandi vergogne dell’Italia del dopoguerra.
Tralasciando alcuni scudetti della Juve, comincerei con l’eponimo della cultura nostrana nel mondo: la mafia (fortunatamente ci si rende merito anche per altre cose, come gli spaghetti e il mandolino, ma io non so suonare né uno né l’altro). La mafia ha creato un modello di potere basato sull’intimidazione e radicato in profondità nel territorio come una pro loco. Cosa nostra è arrivata a compiere atti di una violenza inaudita, di portata nazionale ed oltre, rimanendo, perlomeno nella sua struttura di base, a lungo indisturbata. Salvatore Riina, detto Totò u Curtu, fu arrestato dopo 25 anni di scalmanata latitanza, di fronte a casa sua. La cronaca racconta che questa operazione fu portata a termine dal Capitano “Ultimo” e il suo vice “Arciere” ora sotto inchiesta per una sedia Luigi XVI (ma anche questa potrebbe essere la tessera di un mosaico). Viene da pensare che lo Stato si sia dimostrato poco efficiente o discretamente lento. Oppure viene da dar retta a qualche pentito che sostiene che molte delle azioni eclatanti della mafia non si sarebbero potute portare a termine senza la collusione con presunti poteri interni allo Stato. Teniamo a mente queste ipotesi e proseguiamo.


Terrorismo di estrema destra. Si è reso colpevole di stragi inumane di innocenti a volte quasi senza ragione e probabilmente degli attentati più sconvolgenti della storia dell’Italia repubblicana. Anche qui è possibile imputare gravi colpe allo Stato che ha abbandonato i suoi uomini e dimenticato colpevoli e mandanti, oppure si può ascoltare le mille teorie di relazioni con paesi stranieri, massonerie, servizi deviati e politica. Per inciso: avete notato che quando si definisce la parte malata dei servizi segreti si dice sempre servizi deviati, mentre quando di parla di collusioni all’interno della politica si dice semplicemente rapporti con la politica? Chiuso l’inciso. Teniamo in caldo anche queste ipotesi.

Brigate Rosse. Ovviamente si deve parlare del caso Moro (anche perché molti italiani pensano sia l’unica cosa accaduta nel nostro paese). La mollezza e la colpevole distrazione dimostrata dalle istituzioni va, anche qui, addebitata a deficienze strutturali o, come sostengono i parenti delle vittime della strage di via Fani, a un qualcosa di interno o superiore allo Stato che ha fortemente voluto la morte dello statista, strumentalmente indicato come il misterioso Antilope Kobbler? E accantoniamo anche questo.
Varie ed eventuali. La Uno bianca, la banda della Magliana, i casi Sindona, Calvi, Alpi, Ustica e via discorrendo, tutti sviluppatisi attraverso depistaggi e/o errori grossolani e regolarmente conclusi con le domande in numero soverchiante rispetto alle risposte. Cercando di mettere insieme i pezzi finora accantonati e scartando soluzioni intermedie, le ipotesi dominanti sono due.
Ipotesi numero A: uno Stato (inteso come istituzioni) debole, molle e unicamente votato al mantenimento di se stesso.
Ipotesi numero B: la presenza di poteri occulti all’interno o al di sopra dello Stato che utilizzano forze eversive per i propri scopi.
Ma quali forze? E quali poteri occulti? E soprattutto quali scopi? Per farla proprio alla risiko è pressapoco così: da una parte mafia, terrorismo e movimenti eversivi, dall’altra (secondo i complottisti) servizi deviati (italiani e non), politici corrotti, massoneria e addirittura Vaticano. Analizziamo le due parti del dittico.
Tra i cattivi armati spicca subito una differenza: mafia ed eversione di destra sono sempre stati attratti dal potere e nemmeno i soldi gli puzzavano. Le Brigate Rosse erano decisamente più invasate sugli ideali, non cercavano il potere, ma lo combattevano colpendo non a caso per destabilizzare, ma quelli che loro consideravano nemici del proletariato. Non è detto però, che i loro obiettivi potessero coincidere con quelli di altri meno idealisti e più orientati alla carta moneta.
Tra i cattivi occulti (quelli che nei film fumano in controluce e hanno un aspetto viscido per intenderci) si deve distinguere tra gentiluomini disposti a strangolare la madre con la parannanza per macchine veloci e donne di malaffare e gruppi di gentiluomini che perseguono un progetto comune per se stessi e per il paese, convinti che proporlo preventivamente agli italiani sia una perdita di tempo o possa provocare ingenti sassaiole. Questi movimenti “massonici” ritengono corretto gestire all’insaputa del popolo bue, questioni non alla nostra portata e, già che ci sono, si tolgono lo sfizio di far passare per ieratica qualche sana trombatina.
Tutte queste forze esistono e sopravvivono grazie alla paura e all’indifferenza. Alcune di queste realizzano il proprio potere attraverso clamorosi bluff. Ci sono i morti che testimoniano l’esistenza dei primi e sentenze che descrivono i secondi. Ma quasi mai ci si è spinti più in là di qualche sentenza di facciata per cercare di andare oltre e smantellare i sistemi di potere. Anche qui c’è da chiedersi se un oltre esista davvero e, in questo caso, se qualcosa impedisca di scoperchiare pentole o se gli stessi scoperchiatori si rendano conto che una cambogia di tale portata non sortirebbe benefici, ma danni peggiori dei mali.
Forse l’esempio lampante è tangentopoli. Allora si è voluto scalare la montagna di letame, fino in cima. Peccato che siamo rotolati a valle con una velocità smodata. Allora per che cosa andremo a votare? Per uno Stato molle e autoalimentate o per uno Stato succube di poteri occulti? Il vero dramma è che una risposta definitiva non l’avremo mai e ci dovremo accontentare dell’arteriosclerosi senile di Cossiga. Anche quando uno straccio di Primo Ministro dimostrasse un corredo testicolare e decidesse di mettere mano ai documenti coperti da segreto di Stato, scopriremmo che in tutti questi anni non sono stati poi così coperti.
D’altro canto non ha nemmeno molto senso confidare nelle urne primo perché le facce sono sempre quelle (anche perché fanno tutti il lifting), secondo perché le urne lasceranno intatte le strutture “esecutive”: i vertici burocratici, amministrativi, militari e dei servizi, oltre alle intoccabili lobby di potere che si fanno un baffo ricciolo dei suddetti e di noi popolino bovino. Allora diventa inutile scegliere anche tra queste ipotesi e necessario aprire nuove strade che abbiano principi diversi e destinazioni prossime alla decenza. Io qualche ricetta ce l’ho, ma per ora vi lascio elaborare il conflitto (interiore, non a fuoco).

In contemporanea con MenteCritica

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giovedì 13 marzo 2008

In barba alla vita


Quando la vita ti strapazza come una frittatina (s'ode il rumore di certe uova, recitava Bergonzoni), devi saper reagire. E io sollo. È inutile armarsi fino ai denti, specie se in gioventù non hai curato a dovere l'igiene orale. È inutile scrutare le stelle con un approccio ascetico: siamo soli nell'universo. Anche se camminando di buona lena in direzione opposta all'espansione del cosmo, dovremmo raggiungerne il centro e lì, qualche negozio aperto dovrebbe esserci. È inutile piangere sul latte versato, anche se sei parzialmente stremato. Io ho fatto l'unica cosa sensata: mi sono fatto crescere la barba. Non una barbetta da aperitivo, una seria, da profeta. In patria.
Ciumbia, direte voi. Ma non sottovalutate le implicazioni reazionarie nascoste dietro un volto ad alta concentrazione pilifera.
Lasciarsi crescere la barba dà un senso di realizzazione, di distacco dal livello terreno. Da tutte quelle cose che sono normalmente favorite dall'avere un bel visino pulito. Si acquista anche una identificazione nebbiosa: non sei più il parente di qualcuno (“sai il cugino di quella con le tette panoramiche?”) o quello che svolge una specifica attività (“hai presente lo sventrasardine?”), ma diventi un serafico e ineffabile “quello con la barba”.
Il posizionamento sociale è determinante. Se vi trovaste nudi in una spiaggia nudisti vi sentireste a vostro agio e dovreste preoccuparvi solo di non giocare a racchettoni, ma se vi trovaste nudi durante una lezione di catechismo non sareste proprio sciolti e probabilmente dovreste preoccuparvi del prete. Ecco io ho un barbone selvaggio dove di solito fioriscono pizzetti o facce glabre. E la mia forza è ostentare sicumera pur non avendo alcun motivo per indossare tale corredo pilifero: non sono vecchio, non sono grasso, non ho una faccia che necessiti occultamento (non più di altre insomma), non sono un frate e non guido una slitta trainata da renne. Tutto questo confonde e inquieta.
Oltre al benessere interiore, questo vantaggio sociale porta incredibili benefici perché quando la vita si accanisce su di te, aggiunge a disgrazie personalizzate, l'imbattersi in persone talmente negative che imbattersi in una motrice di un camion sortirebbe danni di minore entità. D'accordo, forse sto esagerando. Diciamo che se Gurdjieff fosse venuto in giro con me, il suo libro “inconti con uomini straordinari” avrebbe contenuto molti meno capitoli. E così passo dalla persona che mi dichiara la sua stima, intendendo però che ha fatto una stima di quanto le posso servire, alla persona che, come una scimmia, non molla un ramo se non può attaccarsi ad un altro e mi dice che forse non lo so ma pure questo è amore. E poi la persona che trova affascinante il mio modo così particolare di essere un disadattato cosmico, però è convinta, per insondabili questioni gnè gnè, che io sia me stesso con tutti gli altri ma con lei sia proprio quella cosa lì che ha sempre voluto. E allora non va bene, ma, sempre per questioni gnè gnè, non è mai non va bene ciao, ma sempre non va bene crepa. Per fortuna incontro anche persone che vogliono il mio bene. Ma io non glielo lascio portare via.
Grazie al cielo (dicehillman) ci sono delle pause. Antonella, giù al ristorante Ferrovie Nord (se vi ci fermate dovete pagare a meno che non abbiate degli alberghi sopra), mi prepara sempre ottime portate e io la ringrazio di avermele portate. Anche se poi capita di mangiare di fianco a un tizio che ci tiene ad onorare le sue origini (in senso darwiniano) e affronta la pietanza come se fosse un consanguineo bisognoso di ablazione di parassiti. Mastica in modo talmente primordiale che a metà pranzo fa irruzione un documentarista di Discovery Channel. Oppure il baldo giovane che intrattiene i commensali con i resoconti di scorribande discotecare, specificando la qualità dei locali in base alla percentuale di successo copulatorio. Perché, cito testualmente, “io sono così: se esco devo colpire”. La disponibilità delle femmine ad essere colpite fa di loro “ragazze simpatiche” e del locale “un posto fico”, mentre la reticenza trasforma le donzelle in “mignotte”, ribaltando così il mio ingenuo concetto di mercimonio uterino. O più semplicemente ti capita quello che ti fissa da quando hai messo piede nella sala e che osserva ogni piatto che ti accingi a gustare come se dovesse giudicarti da quello che mangi. Io capisco che la sua vita è un disastro, visto che trova così interessanti i miei pizzoccheri, ma un paio di volte non ho resistito e ho chiesto se volesse vedere anche quando uscivano.
Ebbene signori, i miei due centimetri di barba creano uno scudo energetico che Spack se lo sogna (non Kathrine, quello con le orecchie). Perché la gente preferisce non interagire se sospetta che da un momento all'altro tu possa tirare una cordicella che spunta dal giaccone urlando Allah è un grande. Perché quando, per esempio, capiti in una tenzone stradale con un uomo vessato dalla moglie e dal capoufficio, quindi non disposto ad essere civile solo perché provieni da destra, un aspetto inquietante può risparmiarti un duello a colpi di cric e l'uomo medio si limita a mostrare il relativo dito. Se poi provvedi a coprirti il capo con una cuffia (non da piscina se no si perde l'effetto) e ad indossare un paio di guanti senza dita (i guanti non tu), è facile che tu possa rimediare un “mi scusi” anche se sei passato col rosso, su un dosso, in curva, con la nebbia, esplorandoti le cavità nasali. Perché spesso le persone, per quanto arroganti e votate a mantenersi almeno uno spazio in cui spadroneggiare, tendono a perseguire la linea della limitazione del danno.
Non fermatevi alle apparenze. Non mi giudicate male solo perché dormo appeso per i piedi avvolto in un bozzolo formato dalle mie ali. Io so apprezzare anche le cose che non condivido, almeno nella misura in cui mi faranno essere meno triste quando sarò morto. Ognuno è fatto a modo suo e si difende a modo suo. Chi con l'aggressività, chi con la fuga, chi con una roncola da mietitore. Io ho una faccia pelosa. Il che, oltre ai suddetti vantaggi, è una sorta di nulla osta per atteggiamenti sociali che non sarebbero ben accetti se provenienti da un viso curato. Come per esempio rispondere a un insolente con quel canto ecumenico che è il rutto di piloro.
Purtroppo ci sono anche degli svantaggi. Se ti metti un maglioncino con la zip, puoi stare certo che un pelo si incastrerà nella lampo e al primo movimento della testa sperimenterai come una cosa così piccola e insulsa come un pelo, possa generare un dolore talmente intenso da far agognare la morte. In più se siete donne dovrete superare anche qualche forma preconcetta di giudizio.
È chiaro che dovrete anche sentirvi ripetere in continuazione da tutti i vostri conoscenti la frase “ma 'sta barba? Quando te la tagli?”. Ma da questo tipo di piaghe non c'è modo di immunizzarsi. Come al ritorno dalla ferie: “finite le vacanze eh?” (no, sono tornato da Haiti perché avevo dimenticato i monboot in ufficio, ma ora riparto). O giunto nel luogo di vacanza: “quando sei arrivato?... Quando te ne vai?”. O quando qualcuno ti vede con una giacca di pelle con scritto sopra Ducati, degli stivali con gli slider e un casco in mano e... “sei venuto in moto?” (no, in tram, ma quel manovratore è un pazzo criminale). Ahimè la mia folta barba non può fare niente contro la mollosità della comunicazione umana, ben rappresentata dal mefitico e solforoso re dell'inferno dei rapporti sociali:

“che hai?”
“niente”

Be' ora anche voi avrete la barba. Non mi ringraziate.

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giovedì 6 marzo 2008

Cosa si può fare con una teiera e una radice di peyote


Ludwig Feuerbach era un filosofo dell'800, quindi tedesco. In Germania, in quegli anni, si pensava tantissimo, poi, nel novecento ci fu una maggiore propensione all'agire. Così come, nell'antichità erano i greci a chiacchierare fino allo spasmo faringeo. Poi però presero ad esercitare un democratico copulare promiscuo, sempre con maggiore enfasi, che li portò lentamente verso il declino della civiltà e la vittoria agli europei del 2004. Questo potrebbe far pensare che l'eccessiva elucubrazione porti a conseguenze nefaste, ma non voglio ragionarci su troppo. Del resto nell'antica Grecia non c'erano i televisori e passare la serata a guardare un filosofo non doveva essere divertentissimo.
Il buon Ludwig, dicevo, prese a studiare teologia, poi però si imbatté in Hegel che lo convinse che la religione non era altro che una blatta della società e decise di abbandonare Teo e dedicarsi alla filosofia. Certo se avesse incontrato Hermann Knauss magari si sarebbe iscritto a ginecologia e avrebbe avuto una vita meno cupa, ma tant'è. Nonostante questo, Feuerbach continuò ad occuparsi di religione, per tutta la vita, grazie al fatto che la fabbrica di porcellane della moglie gli permetteva di procacciarsi il cibo senza dover realizzare la propria esistenza nella nemesi stessa della filosofia: il lavoro. Sì perché Ludwig non riusciva nemmeno a parlare in pubblico perché il sudore gli faceva scivolare i fogli di mano e soprattutto a causa di una discussione con un suo studente davanti al personale non docente da cui non seppe riprendersi:

F: “L'uomo è finito nello spazio e nel tempo e così qualsiasi sua filosofia o religione non può definirsi assoluta o determinata in quanto basata su presupposti che il tempo modificherà o cancellerà”
S: “Quindi anche questa sua teoria non può dirsi assoluta”
F: “Esatto, vede che seguire i miei corsi le fa bene”
I bidelli si annuiscono intorno.
S: “Quindi, se la sua teoria non è assoluta, è possibile che un pensiero, una scienza, sia un giorno definitiva al di là del tempo e dello spazio”
Bidelli: “Oooooooh”

Feuerbach, che non era certo uno sprovveduto, salvò la situazione buttandola sul relativismo, rete di salvataggio di qualsiasi discussione, dalla zuffa da stadio alla tesi di laurea. Esempio di argomentazione relativista: "Secondo me è così". Esempio di argomentazione oggettivista "Sei un coglione". Purtroppo, il fatto di non riuscire ad articolare la sua difesa senza somigliare a Woody Allen decretò la sua sconfitta morale, amplificata dalla perdita del rispetto da parte degli addetti alla carbonaia. Per soprammercato giunse inesorabile la rottura con il suo mentore, Hegel, dovuta ufficialmente ad un contrasto sul concetto di infinito, ma voci ben informate riportano una barzelletta messa in giro da Hegel sulla moglie di Feuerbach con un gioco di parole basato sul termine “porcellana”.

F: “Mi spiace ma hai commesso un errore: è dal finito che discende l'infinito, non il contrario”
H: “Hai finito?”
F: “No, il font garamont rende le tue disquisizioni sul panteismo oltremodo ridicole”
H: “La tua barba è un insulto all'estetica shilleriana

Le cronache del tempo non sono chiare, ma pare che Feuerbach assoldò un filosofo albanese per commettere atti di vandalismo nella consapevolezza di Hegel.
Feuerbach abbandonò l'idea di diventare un filosofo di grido e sposare una modella italiana e si dedicò allo studio. Continuò a sostenere le funzioni terrene della religione, negandone caratteristiche divine e trascendenti. Sostenne che l'evoluzione naturale di una religione è la negazione di dio e l'affermazione della consapevolezza umana. Arrivò persino a postulare che una religione ben strutturata ha effetti assimilabili a quelli di una melanzana alla parmigiana e che quindi identificarsi in ciò che si crede è un po' come essere ciò che si mangia. O che si crede di mangiare.
Fece spazzatura di tutte le dimostrazioni ontologiche, a posteriori, a casaccio, dell'esistenza di dio e dell'uomo formulando il sensualismo: il dolore che si prova chiudendosi una mano, opportunamente raffreddata, in una portiera è sufficiente a dimostrare in toto la nostra esistenza e anche a maledirla.
Fatto sta che oggi le sue teorie sulla religione andrebbero rispolverate, sebbene egli stesso ebbe qualche tentennamento mistico sul finire della sua vita, ma si sa, su un aereo in panne non c'è nemmeno un ateo. Perché mai come oggi il significato di religione ha assunto la morfologia di una pappetta informe e limacciosa. Da un lato serve a un gruppo di scrittori, intellettuali, registi e compagnia cantando, per inventare, screditare, riabilitare teorie sensazionali a fronte di cachet sbalorditivi e dall'altro consente agli atei di affermare l'inferiorità intellettuale dei religiosi dimostrata dall'esorbitante numero di fesserie che si fanno in nome di dio. Come se in nome del denaro e del triangolo sotto i bermuda si facessero cose intelligenti. Io credo. Credo in chi disse che una società di atei inventerebbe subito una religione (credo Balzac o Tom Cruise, non ricordo).
Degli allegri modi in cui viene utilizzata e descritta la religione avevo parlato qui. L'ultima trovata è di un “ricercatore” israeliano che sulla rivista di filosofia “Time and mind” applica le sue nozioni di psicologia cognitiva per dimostrare che Mosè, quando ricevette le tavole della legge, era strafatto di mescalina. L'abuso di allucinogeni da parte del profeta lo portò a chiacchierare con un cespuglio perennemente in fiamme e successivamente i relatori delle sacre scritture si arrangiarono alla meglio dovendo tradurre in aramaico frasi come “cioè che storia, Sefora passami due toffolette”. È quindi probabile che i comandamenti, frutto di viaggi mescalinici, non fossero esattamente quelli tramandati dalla Bibbia. Forse c'erano anche un undicesimo “falla girare” e un dodicesimo “che c'hai n'euro?”.
È evidente che qualche intellettuale trova più utile tutto questo di una fede.
Ricordo che un giorno pensai che se una religione professa la pace e l'armonia tra gli uomini fa già molto di più di quello che ci si può aspettare da un vicino di casa e, per questa ragione, per quanto mi riguarda i suoi fedeli possono anche adorare un'enorme teiera. A quanto pare ho lo stesso pusher di Mosè perché esiste veramente un simile culto. Ne ho avuto notizia grazie all'arresto di una discepola, condannata a due anni da un tribunale islamico per apostasia. Perché quando si parla di fede se ne parla sempre per conflitti, per trarne profitto o per farsene beffe. Certo ammetto di essermi chiesto se le funzioni del culto della teiera si svolgono alle cinque e se c'è stato uno scisma tra la chiesa del latte e quella dello zucchero, ma solo perché sono invidioso e perché la mia congrega della cuccuma è fallita a causa di nervosismi intestini.
Fermandomi all'interno dei confini terreni, non condivido la religiosità se è dipendenza da un bisogno di colmare vuoti personali invece di espressione consapevole della propria interiorità.
D'altro canto, guardandomi intorno, la religione è l'unica cosa rimasta che dia all'uomo un senso di inadeguatezza, in un mondo in cui quasi tutti si relazionano con presupposti di superiorità e alla parola dio, hanno aggiunto un apostrofo.

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