giovedì 28 settembre 2006

Dio è morto (Nietzsche). Nietzsche è morto (Dio)


Eutanasia. Lo so, ieri ho parlato di Prodi, l’altroieri di treni, oggi parlo di morte, di questo passo finirò a raccontare cose mostruose, tipo le condizioni psichiche degli autori di Buona Domenica, ma portate pazienza. L’etimologia della parola ci arriva dritta dritta dalla saggezza greca: eu è un prefisso che indica qualcosa di buono, di bene. Thanatos, come sappiamo tutti noi che abbiamo fatto l’ITIS, significa morte. Che cosa avrà di buono la morte, ve lo saprò dire. Letteralmente quindi buona morte. Un augurio insomma, tipo buon natale. Qui c’è subito un equivoco sintattico. Quando si qualifica una morte (che brutta morte per esempio), in realtà si descrive solo la parte viva del trapasso, cioè gli istanti che lo precedono e le condizioni che lo causano. Per esempio una buona fine la immaginiamo, rapida, indolore e possibilmente una volta stufi di donne, alcol e macchine potenti. Una spiacevole fine potrebbe invece arrivare tra atroci sofferenze, tipo 2 anni di stitichezza o sei mesi con Mazzocchi. Dal momento in cui si smette di avere funzioni vitali, invece, la morte è, in teoria, uguale per tutti. 'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella. Quindi la buona morte è in realtà un buon avvicinamento alla morte.
Che cosa distingue l’eutanasia dal suicidio (dal greco me so’ stufato)? Tenete a mente questa domanda che rispondo dopo….un po’ di suspance ci vuole.
Inutile nascondere che la più forte resistenza all’eutanasia, sia di tipo religioso. In quest’ottica, il motto in difesa della vita a tutti i costi è “la vita è un dono di Dio e solo Dio può decidere come e quando togliercela”. D’accordo. Però sarebbe meglio limitarsi alla seconda parte, cioè che Dio può decidere quando è ora. Perché questa storia del dono crea confusione. Primo perché qualcuno potrebbe obiettare di non aver potuto scegliere se venire al mondo o meno e quindi più che un dono, trattasi di azione deliberata. Secondo perché il fatto che si sia di fronte a un dono, non ha come diretta conseguenza che il donante possa decidere se e quando riappropriarsi del regalo. Se è così ditemelo perché quel maglioncino che ho regalato a mio cognato mi starebbe proprio bene.
Io accetto pacificamente queste posizioni. Mi risulta più difficile accettare che siano le uniche. Non trovo corretto che a una persona non credente venga imposto di prendere decisioni assolutamente personali come se fosse un credente. Allora dovremmo costringerlo anche a confessarsi, cresimarsi, ungersi estremamente eccetera, impedendogli una vita dignitosa di scelte e responsabilità. Continuando sulla falsariga religiosa, si presenta la spinosa questione delle macchine che tengono in vita. Su questo abbiamo ovviamente solo il parere degli uomini. La chiesa accetta che un uomo, naturalmente condannato a terminare la sua esistenza, allontani artificialmente la morte. Dio ci ha lasciati liberi di agire, sbagliare e dire farloccate (io ne sono prova ontologica): come possiamo essere sicuri che l’esercizio di combattere il naturale corso degli eventi, sia cosa buona e giusta? Mi si potrebbe obiettare che la costruzione di codeste macchine fa necessariamente parte, come tutto, del grande progetto divino. Ma a questo punto se tutto è progettato, è inutile che stiamo a discutere e fare referendum, tanto è già scritto anche se l’eutanasia sarà prevista o meno dalla legge degli uomini.
Un ultimo spunto da teologo di ringhiera. L’essere umano ha la simpatica tendenza a convincersi di essere sempre nel giusto (vi garantisco che è così), però qui qualcuno si sbaglia per forza e nessuno ne tiene conto. Nel mondo si professano centinaia di religioni: dalla congrega di nonna felice alle grandi fedi. Ma facciamo finta che esistano solo le religioni abramitiche. Qualcuno di questi tre si sta sbagliando e non ci piove. Forse tutti (se vogliamo buttare nel calderone anche gli atei), ma certamente molti, considerato che ognuna delle relative leggi divine esclude l’esistenza di altre realtà ultraterrene. Ne possiamo matematicamente dedurre, che esiste una consistente probabilità che mi venga impedito di fare scelte personali, in nome di leggi teologiche completamente sbagliate. Detto questo, chiudo la parentesi metafisica (che di questi tempi ha spesso ripercussioni fisiche) e mi apro verso il sociale. Se una comunità, decide in libera democrazia, che l’eutanasia è una pratica deleteria per il mantenimento e l’evoluzione della comunità stessa, allora mi adeguo, al limite non capisco, ma mi adeguo (o cambio comunità). Ma imporre una visione deistica della vita, sulle scelte assolutamente personali (qui non si parla di embrioni, aborto o cose che coinvolgono altre vite), a persone che di religioso hanno solo il tifo per la squadra di calcio, mi sembra non sbagliato in sé, ma lesivo dello sviluppo della consapevolezza personale e della libertà sociale.
Faccio umilmente notare, che non sto prendendo posizione sull’eutanasia, ma sui metodi e sui parametri che vengono usati per valutarne l’impatto umano.
Che domanda vi avevo chiesto di tenere in mente? E va be’ ma se non tenete nemmeno la pipì. Era la differenza tra eutanasia e suicidio. A livello pratico, questa differenza sta semplicemente nel fatto che il suicida ha la capacità motoria (ed emotiva) per togliersi la vita. L’eutanasia coinvolge chi non ha queste risorse. L’uomo tenuto in vita da una macchina, che può solo pensare e muovere gli occhi, se avesse per 30 secondi l’uso di uno solo braccio, si strapperebbe tubi e tubicini e la farebbe finita, divenendo suicida. Quindi tutta questa discussione sull’eutanasia e la sua non applicazione, si basa su due limiti: l’impossibilità dell’aspirante morituro di porre fine con le proprie forze alla sua vita e sulla paura di chi lo aiuterebbe volentieri, di finire in carcere. Per questo si vedono molti processi per eutanasia (omicidio) e pochissimi per suicidio.
C’è una sensazione di forte fastidio, nel vedere giochi socio-politici su una cosa così personale ed è difficile per tutti sentirsi dire “la tua vita non ti appartiene”. Allora dialoghiamo pure, ma manteniamo un minimo di serietà e rispetto anche delle persone, non solo delle religioni…almeno la stessa serietà che hanno i morti, come direbbe il fantasma del netturbino di Totò: “nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"

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mercoledì 27 settembre 2006

Intercettare la distruzione


L’altro giorno hanno rubato in casa di un mio amico. Brutto affare (il furto non il mio amico), ma per fortuna le forze dell’ordine sono riuscite a catturare i lestofanti e recuperare la refurtiva. Il mio amico è stato subito avvertito e, felice come una pasquetta col sole, ha raggiunto il posto di polizia. Purtroppo lo aspettavano nefaste novità. La sua roba era stata mandata all’inceneritore per disposizione governativa: bisogna evitare che venga fuori il marcio, hanno fatto sapere le istituzioni. Certo il mio amico proprio della bella roba in casa non ce l’aveva, però almeno un rigattiere, un robivecchi, ecchediamine.
Si devono sentire così centomila italiani. Le loro informazioni, più o meno riservate, dopo aver divertito un certo numero di squisite persone, verranno distrutte. Mi sgorga qualche considerazione.
Queste dannate intercettazioni vanno avanti da chissà quanto tempo. Nessuno sa realmente quante e quali persone si sono addormentate leggendo i fattacci miei. Nessuno può sapere se ci sono dati sensibili registrati nella chiavetta usb della nonna di tizio, nel ipod del nipotino nano di caio o in un dvd infilato nella collezione fetish-latex di un impiegato di un ministero a caso. Senza contare che, a meno di scomodare i precog di minority report, nessuno può sapere che cosa ci sia nella testa delle persone che sono entrate in contatto con le intercettazioni telefoniche e telematiche.
Fatte queste considerazioni che, giuro, ha fatto anche mio nipote di 10 anni, a qualcuno viene in mente comunque, che distruggere dei tabulati, oltre ad essere un gesto catartico, è anche un’ottima soluzione al problema della diffusione del frutto di queste spiate. Tutto ciò a dimostrazione del fatto che la razionalità e il buonsenso non sono ancora allegati a nessun quotidiano.
Il prode governo, vara alla velocità della luce un piccolo decreto (un decretino) inceneritore. L’opposizione non opposiziona. Tanto affanno e tanto armonioso accordo non si ricordava dai tempi degli aumenti di stipendi per i parlamentari. Solo Di Pietro pareva lievemente in disaccordo, ma il capo del suo carrozzone ha chiarito che trattasi di semplice disturbo della personalità, dovuto a una sindrome schizofrenica borderline. In pratica alle volte, al verace ex pm, sfugge di mente la provenienza della sedia su cui si trova assito. Ma vediamo i punti salienti del decretino:
I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti nè in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato.
Il fatto che siano già stati acquisiti da dei manigoldi non viene rilevato.
Delle operazioni di distruzione è redatto apposito verbale, nel quale si dà atto dell'avvenuta intercettazione o detenzione e dell'acquisizione, delle sue modalità e dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto delle stesse.
Quest’ultimo dettaglio è fondamentale. Questi verbali, se nessuno li intercetta prima, saranno in qualche modo accessibili. In un mondo perfetto mi arriverebbe una letterina a casa con il francobollo acquistato e leccato personalmente da Tronchetti Provera, con su scritto “Guarda che tu sai cosa ora è un tutti sanno cosa. Se vuoi saperne di più ci vediamo tutti alla cabina all’angolo”. In questo modo io potrei valutare se ho subito danni e di che natura. Invece potrò solo sbirciare (probabilmente pagando) su questi verbali se compare il mio nome, ma non saprò mai di che cosa sono stato privato (divenendo pubblico). A Stoccolma, con un’antica locuzione, usano definire questa situazione come cornuto e mazziato. Non solo si sono appropriati a mia insaputa di informazioni riservate, non solo, tramite questi verbali, tutti lo sapranno, ma probabilmente resterò uno dei pochi a non sapere che cosa è rimasto della mia vita, che non stia circolando per strani ambienti. Non lo saprò io e non lo sapranno i giornalisti. Anzi, secondo me i giornalisti, tra contatti vari, voci di corridoio, spifferi, fughe di notizie, fughe di gas, fughe fiorite di Bach, sapranno anche qualcosa, ma grazie a questa postilla del decretino:
Chiunque illecitamente detiene gli atti o i documenti di cui all'articolo 240, comma 2, del codice di procedura penale, è punito con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni.
…non potranno in alcun modo diffonderli.
A me tutto questo sa di beffardo. Ma anche se mi sbagliassi (l’ultima volta è successo nel ’76 quando ho acquistato una brioche per 2 milioni), resterebbe il fatto che dei manigoldi hanno commesso un reato nei miei confronti, procurandomi un danno e le istituzioni mi impediscono di valutarne l’entità per poter prendere adeguati provvedimenti. Perché?
Bella domanda. Chiedo l’aiuto del pubblico, cioè del dipendente pubblico Prodi, che suggerisce: “Occorre fare in modo che il marcio non dilaghi”. Forse è sbagliato estrapolare le frasi dal loro contesto, forse bisognerebbe avere la giusta prospettiva su certe dichiarazioni, ma un mio amico, che ne ha viste tante, persino navi da guerra in fiamme al largo dei bastioni di orione e che pensa sempre male, dice che questa dichiarazione ostenta un’onestà intellettuale di cui il mondo politico era dimentico da legislazioni!

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martedì 26 settembre 2006

Sì, viaggiare


La bigliettara ferroviaria dall’aspetto gentile e dai modi no, non aveva bisogno di andare in discoteca. La sua rabbia repressa la stava sfogando su di me. Avrei dovuto chiederle almeno un 30% dell’ingresso all’Hollywood. Io cercavo di ammorbidire i toni del rapporto lavoratrice – disperato senza biglietto del treno, ma con risultati indigenti. La mia battuta sull’etimologia di “accelerato”, sebbene intarsiata con un apprezzamento sulla di lei collana che tanto si intonava con il rosso che iniettava i suoi occhi, aveva provocato una reazione non all’altezza delle mie aspettative. La sua voglia di scherzare mi viene chiarita attirando la mia attenzione verso un pacco di tampax mezzo vuoto, appoggiato sulle banconote da 100. Donna repressa o gesto di rivolta. Rivolta repressa nel sangue.
Ottenuto il mio biglietto per l’inferno, giro, anzi girone, nella monumentale stazione di Milano, che si fregia di essere centrale. Scorto il binario che mi compete, lo trovo pieno di addetti al treno, ma senza il relativo treno. E’ la prima volta che vedo gli operatori igienici delle ferrovie. Mi rammarico un po’ perchè avrei voluto incontrarli in situazioni differenti e non seduti sui binari mentre protestano per le sporche condizioni di lavoro. Ma mi compiaccio e vanto con gli amici di averli visti.
Il mio treno, lento ma inesorabile come i più temibili tori della plaza, esita ma alla fine desiste. Non è carino investire degli addetti alle pulizie…penso a tutto il sangue..mi viene in mente un attimo la bigliettara…raccapriccio (per il sangue non per la bigliettara)…e poi chi pulirebbe? In fondo hanno ragione, i treni sono davvero sporchi. Andrebbero puliti. Loro però non sono abbastanza per bloccare tutti i binari, così salgo su un treno che in qualche modo, con strane coincidenze, potrebbe portarmi proprio lì, dove desidero recarmi.
Parte. E’ lento, sporco, puzza, i servizi non servono, l’aria condizionata non arieggia, ma parte. Tant’è. E’ anche strapieno, talmente pieno che in mezzo a quella calca potrebbe passarci solo un controllore. La gente protesta vivacemente. Qualcuno piscia sul pavimento del bagno e fa di peggio a treno fermo (violazione seconda solo a sostare tra una carrozza e l’altra), poi fuma un pacchetto di sigarette (proprio un pacchetto, non 20 sigarette), lo spegne contro la porta dei servizi, torna nel suo scompartimento, si toglie i sandali, le calze traspiranti, appoggia i piedi sui sedili, estrae dalla 24 ore (circa) pane, burro, porchetta e fiasco di vino, mangia come un maiale per nulla timido e con i resti ci gioca a palla. La sua digestione consiste nel ruttare alcuni dogmi, mettendoli in cattiva luce e in una sentita lamentela per la precaria cura delle condizioni sanitarie oltre che per la presenza di oche granaiole che si stanno nutrendo di scarafaggi che si stanno cibando dei resti della sua merendina. Un semovente ciclo della vita….mi riviene in mente la bigliettara.
Alla prima stazione di cambio (devo fare in tutto 50 km, un cavallo sarebbe stato più efficace…a dondolo), la versione femminile di Sandro Ciotti mi fa notare che la coincidenza (si chiama così perché è un caso se la prendi) che aspetto non arriverà al binario 7 ma al binario zgxxfff. Le persone nei luoghi pubblici tendono ad evitarsi, a isolarsi. Ma in questi momenti tutti cercano conforto e risposte negli occhi del vicino, manco fossero amici da anni. La radiocronista concede una sintesi e dichiara binario 1. Partono i 110 ostacoli. All’arrivo (per la cronaca ha vinto una etiope degli altipiani) la voce, divenuta di colpo molto più vispa, ci rimbalza al binario 7. Un pensionato, che era appena stato inserito in un polmone d’acciaio dopo l’ultimo trasferimento di marciapiede, esala l’ultimo respiro metallico, lasciando un vaffanculo nell’etere destinato a chi saprà apprezzarlo. Non ci sono altri treni in arrivo, quindi o il trenista è ubriaco o qualcuno dall’alto fa scommesse clandestine su chi esce per primo dal sottopassaggio. Gli eventi futuri mi chiariranno invece che trattasi di riscaldamento per una campestre che verrà.
Dopo un certo numero di finte e sguaiate risate provenienti dalla sala controllo, arriva il treno dei desideri, in ritardo (a differenza della bigliettara). Elucubro incuriosito che una volta i treni sbuffavano, ora questa prerogativa è dei passeggeri. Saliamo a pecoroni sul carro bestiale. Beffardamente illusi dalla convinzione che nulla possa più accadere. Potrebbe essere peggio….potrebbe piovere.
A pochi chilometri dall’agognata meta, la locomotiva, molto loco e poco motivata, si pregia del lusso di rompersi. I passeggeri, già turbati dall’apprendere che quel treno fosse munito di locomotiva, si lasciano andare allo sconforto, ad atti vandalici e a orribili scene di nudo in pubblico. Un operatore delle ferrovie, correndo in fiamme per i corridoi (altra etimologia felice), ci invita gentilmente ad abbandonare i vagoni. Siamo scesi. Ora posso dire di sapere qualcosa di un campo di grano. E vi assicuro che poco ha a che fare con la poesia di un amore profano. La stazione non è lontana, ci si incammina pensando che in fondo sono cose che capitano. Il percorso tracciato con il nastro bianco e rosso e i rifornimenti volanti con spugne e acqua, mi insospettiscono un po’, ma non voglio fare anche io quello che si lamenta sempre.
All’arrivo chiedo il rimborso del supplemento bradipo, ma mi è stato risposto che sarei dovuto arrivare tra i primi venti. Tra i primi venti? E se poi mi spettino?
Gli impiegati delle ferrovie saranno stressati da lavoro indegno, passeggeri selvaggi e scioperi singhiozzanti, ma non hanno un minimo di senso dell’umorismo.

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venerdì 22 settembre 2006

Un fiume di informazioni


Sono sotto controllo. Stavolta sono certo di aver fatto mangiare la polvere a tutti i miei amici. Anche a quello coinvolto in una misteriosa vicenda di cronaca perché omonimo dell’autista del bancarottiere di riferimento. Persino al mio amico che si è portato a letto una modella: evento chimico scatenato dalle sostanze stupefacenti che albergavano nel di lei organismo, venute a contatto con le medicine per le mucche che lui si iniettava, con un ago da ippopotami, tra muscoli guizzanti e fegati in lacrime. Nessuno sa esattamente che cosa successe quella notte. Lui, uomo d’altri tempi, tace, per dignità e rispetto. Concede ogni tanto un gesto eloquente o un’espressione mista, tra il godereccio e l’incredulo, giusto per mantenere viva in noi l’ammirazione e spremere fino all’osso il ritorno sociale di cotanta impresa. Ho stracciato tutti, posso affermare non senza una punta di sintomatico mistero, che il mio blog è tenuto sotto controllo niente sedere di meno che dalla presidenza del consiglio in persona! Diversi accessi al mio sito, giungono dritti dalle sale del potere, la stanza dei bottoni, il tempio della politica vera, quella che conta. I miei amici sono impalliditi. Quello della modella, sconvolto dalla notizia, ha cercato di riguadagnare terreno dicendo “non vi ho mai detto che la modella aveva due gemelle e che si sono infilate nel letto con noi?”, ma è stato zittito a colpi di melanzane in faccia. Ora io sono il depositario dell’invidia generale. Io sono ciò che gli altri vorrebbero essere….
Certo ho dovuto tacere un piccolo particolare: grazie a semplici strumenti tecnici a disposizione di tutti, ho rilevato gli accessi dalla rete denominata “presidenza del consiglio dei ministri”, ma ho potuto anche verificare che cosa stavano cercando. In particolare, qualcuno ha cercato con google “fiume bottego” ed è finito sul mio post sull’enigmistica. In pratica c’è un tizio negli uffici di Prodi che fa le parole crociate e non è neppure bravo. E imbroglia.
D’accordo, questo ridimensiona un’anticchia il mio quarto d’ora di celebrità, ma sicuramente posso fregiarmi di un’informazione riservata: so che cosa fanno gli impiegati d’alto livello durante l’orario di lavoro e so anche qualcosa del loro livello culturale. Che ci faccio ora con queste informazioni? Niente ovviamente. Principalmente per motivi etici: per esempio la paura di finire in Siberia a coltivare lime dei caraibi. Però questo mi ha fatto pensare.
Si sente dire spesso, tra la gente che pare saperne, che l’informazione è potere. Il fatto che migliaia di persone socialmente influenti venissero controllate e spiate, avallerebbe questa informazione, che quindi ci rende un po’ potenti. La domanda che nessuno si pone è: perché carpire informazioni è così importante? Perché qualcuno è disposto a rischiare, a spendere ingenti somme di denaro per sapere che dice Vieri a Muccino? La risposta mi sorge spontanea: è evidente che la realtà che noi percepiamo attraverso gli organi di informazione, non rappresenta minimamente l’effettivo svolgersi degli eventi. Altrimenti che senso avrebbe? Se ciò che succede, come succede e perché succede, fossero informazioni alla portata di tutti, a nessuno verrebbe in mente di tenere sotto controllo centomila telefoni. Non ci sarebbero reti di spionaggio, talpe, cimici e altre bestie varie. Tutto ciò porterebbe a pensare che tutti quei sospetti, quelle ipotesi di complotti e macchinazioni nell’ombra, possano trovare sostegno nella ricerca affannosa e illegale, di informazioni private. Se queste informazioni sono così importanti ed è così importante tenerle nascoste, è concesso pensare che esista una realtà politica, sociale, economica e via discorrendo, che noi, massa volgare, ignoriamo o siamo costretti a ignorare.
La privacy: bella parola. Bel casino. Ormai chiunque sventola la bandiera della privacy. Il tizio che usa risorse pubbliche per fatti privati, i criminali i faccendieri. Pare che qualsiasi reato sia un furto di caramelle di fronte alla violazione della privacy. Se ci fosse un piano per gabbare milioni di consumatori o milioni di tifosi che pagano il biglietto o giocano al totocalcio, lo vorreste sapere? O in nome della privacy preferireste continuare ad essere ciurlati nel manico? Se sto commettendo un crimine, il minimo che mi aspetto è che qualcuno stia facendo di tutto per impedirmelo. Ma se non ho niente da nascondere? Altro bel problema. In un contesto di legalità sociale, è ovvio che io possa e debba pretendere il rispetto della mia privacy. Ma a guardarci bene in fondo, la privacy è una necessità scaturita dalla stupidità umana. Se qualcuno ascolta le mie conversazioni erotiche con il mio pizzaiolo, è sicuro di avere qualcosa su cui far leva per tenermi in pugno (in termine tecnico: mi tiene per le palle). Ma questo è dato dal fatto che io so che in qualche modo avrò un danno sociale dalla diffusione delle mie telefonate sesso prosciutto e mozzarella di bufala. Perché la gente mi giudicherà e, probabilmente, emarginerà per questo. La stessa gente che invece è tranquilla, perché ancora nessuno ha scoperto che si fa frustare da un nano vestito da suora. Lo stesso dicasi per il fatto, per esempio, che ho le ragadi (per ovvi motivi) o che, peggio ancora, sono ateo. La vera mostruosità non è non rispettare la privacy a tutti i costi, ma il fatto che le persone sono sempre pronte a giudicare, etichettare e condannare. Non stiamo difendendo la nostra privacy, ci stiamo difendendo dall’assenza totale di comprensione, di umanità. Questa è la vera piaga. In assenza di questa disumanità, potremmo tranquillamente avere telecamere ovunque, registrare le nostre impronte digitali e farci ascoltare le telefonate. Saremmo sicuri che a nessuno interessa se metto il perizoma o tradisco mia moglie (magari a lei un po’ interessa), ma saremmo un po’ più sicuri che la realtà che percepiamo, si avvicini molto a quella effettiva. E’ un concetto difficile da assimilare, me ne rendo conto. Siamo abituati a difendere il nostro privato da occhi morbosamente curiosi e ipocriti. Ma se ognuno avesse la propria vita da vivere e non quella degli altri e conoscesse più la comprensione o al limite l’indifferenza, del disprezzo e l’invidia, sarebbe più facile parlare di una privacy umana e non difensiva.
Per il tizio della presidenza del consiglio, il fiume di Bottego si chiama Omo, però la prossima volta niente internet o enciclopedie, arrivaci con gli incroci e memorizza, se no non lo impari mai.

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giovedì 21 settembre 2006

L'insonnia dell'eco-coscienza degenera in mostri


L’altro giorno ebbi a porre rimedio alla mia sete di Giovine del Terzo Millennio abbeverandomi di una pozione nota già nella Lingua dei Padri. Essa chiamasi Chinotto, e prende il nome dall’omonimo agrume sul cui succo si combina la base del frizzante intruglio.
Io non ho mai visto un chinotto allo stato brado, insomma il frutto. Non so proprio com’è fatto, quindi vado un po’sulla fiducia. Ho indagato nella mia cerchia di conoscenze ma nessuno mi ha saputo dire che forma abbia un chinotto al suo stato originario, prima di entrare spremuto in bottiglia. Se per caso ha la pelle a buccia d’arancia come i limoni o i mandarini oppure no, per esempio. Quindi, o il chinotto-frutto è un agrume misterioso almeno come il lime dei Caraibi, oppure io devo smettere di frequentare ignoranti come me e trovarmi amicizie maggiormente neurotoniche.
In attesa di capire, ho preso questa bottiglia – una bella bottiglia in vetro – di Chinotto e me ne sono giovato, poi mi sono messo a leggere le cose scritte sull’etichetta. Lo so, è un atteggiamento da disadattato, e infatti lo faccio sempre. Zucchero, aromi, gas, acidificanti, insomma le solite cose infilate fra gli ingredienti, erano tutte a posto. Idem per la scadenza, correttamente indicata.
La frase che mi ha sconvolto era invece fuori contesto e recitava: “Recipiente nuovamente riempibile, non disperdere nell’ambiente”.
Allora mi sono messo a riflettere sull’origine della filiera elettromeccanica che ha condotto una macchina stampatrice a vergare quelle parole sull’etichetta.
Ho escluso in partenza che a concepire la frase possa essere stato un computer, ma non perché un “automa” non sia abbastanza intelligente: semplicemente perché se è così intelligente non viene utilizzato per redigere etichette da bibita.
Dunque non può che essere stato un umano, o un gruppo di umani, ovviamente nell’accezione più ampia e comprensiva del termine “umano”.
I concetti esposti sono due. Partiamo dal primo: recipiente nuovamente riempibile.
L’umano, o gruppo di umani, s’è avveduto che una bottiglia vuota può essere resa piena (di cosa non viene specificato, per rispetto della privacy del riempiente). Dopo cotanta scoperta, egli (o gruppo di egli) sa che il Mondo sarà diverso, e tutti, uomini e donne, anziani e bambini, senza distinzione di razza (ci mancherebbe altro) introdurranno qualcosa nelle bottiglie vuote: perciò divulga la rivelazione attraverso le etichette, uno dei mass-media più sottovalutati. E le bottiglie vuote, sino a quel momento notoriamente utilizzate soltanto come bersaglio da tiro a segno, strumento di piacere, arma contundente o da taglio (se all’uopo infrante), sin anche moneta di scambio presso le società meno evolute, acquistano un’imprevista dignità.
Per parte nostra, ci sentiamo di unirci al tripudio della comunità scientifica consigliando un paio di semplici esperimenti: versate dell’acqua in una bottiglia vuota e verificherete che il liquido prende la forma del contenitore! Sempre più assetati di conoscenza, continuate a versare del liquido nella bottiglia e scoprirete che a un certo punto esso incomincerà a fuoriuscire: avrete dimostrato che i liquidi sono incomprimibili, al contrario delle olive snocciolate.
Capite perché l’umano (o gruppo d’umani) che ha inventato la suddetta frase dev’essersi sentito come colui che accende la luce dell’alba di una Nuova Era rischiarando la notte della coscienza della sua specie?
Secondo concetto: non disperdere nell’ambiente. Qui si va sul linguistico. Per esempio la nozione di dispersione, in quel contesto, non mi è chiara. Come si disperde una bottiglia? Per andare dispersa, secondo me, una cosa dev’essere liquida, o polverosa, o macinata, insomma disperdibile. Oppure non dev’essere “una cosa”. La parola “dispersione” mi fa pensare a uno che si fa cremare perché i suoi resti ridotti in cenere vadano dispersi nel mare o nel vento, o alla dissipazione termica degli edifici costruiti da palazzinari senza scrupoli e ad altre cose del genere. Se proprio mi sforzo e scavo fra i solchi lasciati da ancestrali codici pseudocattolici, posso arrivare al seme dell’onanista, che si disperde dove capita. Se cerco fra i sinonimi del verbo “disperdere” proposti dal programma di scrittura che sto usando per passare il tempo ora mentre viaggio in treno, trovo “sparpagliare”, “spargere”, “mandare in direzioni diverse”, addirittura l’improprio “allontanare” e lo strategico “mettere in fuga”. Ma non ce n’è neppure uno che abbia a che fare con l’immondizia e coi rifiuti utili o riciclabili.
Non si riesce proprio a figurare nella mente questa bottiglia che si disperde. E dove poi? Nell’ambiente. L’ambiente, letteralmente, è colui che ambisce a qualcosa, ma non voglio addentrarmi in questo discorso: preferisco pensare che “ambiente” sia una schifezza di parola per dire Natura.
Quello che mi procura fastidio, è questa perversione ecolinguistica che genera mostruosità. Scrivere che una bottiglia di vetro si può riusare comporta la certezza di avere clienti scimuniti, con l’aggravante di non informarli che il riempimento va effettuato dalla parte del buco e che poi ci devono anche mettere il tappo. Quanto all’ambiente, possiamo anche evitare ridondanze: ormai tutti sanno che le bottiglie vanno gettate via insieme alle altre bottiglie, così anche se non dovessero essere riciclate per colpa dell’ecomafia (che, si sa, ricicla solo il vil danaro), almeno non si sentono sole.

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martedì 19 settembre 2006

Il telefono, la tua croce

Telecom Italia, servizio assistenza clienti paganti. Premere 1 per ascoltare un quarto d’ora di pubblicità ingannevole. 2 per parlare con un operatore all’oscuro di ogni cosa, ma simpaticissimo, che te ne passerà un altro che sa qualcosa, ma non te la dice perché è antipatico e poi un altro e così via fino alla caduta della linea. 3 per ascoltare una musichetta fastidiosa come una mosca nella speranza che ti dimentichi che volevi da noi. 4 per saldare bollette non pagate. Radice di logaritmo, in base cancelletto, di asterisco per reclami o rimborsi.”
“987##11*€”
Benvenuto, lei ha digitato il codice di accesso all’aerea dirigenziale con il livello di autorità: divinità. Digiti 1 per smembrare l’azienda. 2 per svenderla su ebay. 3 per riunire il consiglio di amministrazione e farne una compagnia itinerante di balli folcloristici newyorkesi. 4 per impartire ordini con il livello di segretezza mistero totale
“4 voglio parlare col tronchetto socmel!”
Prodi, è lei?
“Cat’ vegna ‘n cacher, macchina infernale, chi ti ha progettato? Bertinotti?”
Vichiesta non valida, vipeteve pvego
“Tronchetti Provera!”
Siamo spiacenti, l’utente da lei chiamato risulta di(s)messo
“Socmel, allora ahmmm mi passi ehmmm Angelo boff Rovati”
Vuole parlare con: cittadini italiani?”
“Ma siamo matti? Ho detto Angelo Rovati”
L’utente da lei chiamato risulta di(s)messo
“Boia d’un mond leder. E ora che faccio?”
Premere 1 per riferire in parlamento. 2 per invitare a cena due ispettori della consob. 3 per un querela party con il codacons. 4 per di(s)mettersi. 5 per fare il vago
“5”
Ha detto 4?”
“NO 5!”
La accendiamo??”
“5”
Non ci vuole ripensare?”
“55555 e mi passi Vannino Chiti”
“Pronto?”
“Vanni sono Romano”
“E io sono di Pistoia. Allora?”
“Ma no, sono il presidente. Ho bisogno che riferisci in parlamento per conto mio sull’affare telecom, io devo finire una partita a shangai col nipote del primo ministro cinese”
“Ah ciao Roman…schhhh nto di sentirti, scu..fzzzzz…sono in gall..prrrrrr…clik”
Premere 1 per scegliersi collaboratori migliori. 2 per ulteriori tentativi disperati.”
“2 Voglio parlare con Gentiloni”
Vuole parlare con: Berlusconi?”
“Noooooo, cat’ vegna mila cancher, Gentiloni”
“Pronto?”
“Ciao sono io, se attacchi ti faccio rotolare dall’aula transatlantico fino ai banchi della lega!”
“Dimmi tutto presidente”
“Devi relazionare in parlamento sul caso telecom, io sono impegnato in una complicatissima partita a mahjongg con una miliardata di persone”
“Che ci guadagno?”
“La poltrona di ministro delle comunicazioni”
“Grande!!! Va bene….ehi un attimo, io sono già ministro delle comunicazioni!”
“Appunto”
“Ho capito, ma che è successo? Io non ne so niente. E se mi linciano? Tutta l’Italia mi ascolterà io ho paura! Dov’è finita la Franzoni? E i modellini da Vespa??”
“Calma, stai calmo! Tanto c’è Benedict 16 che ha fatto insolentire l’islam e lo stanno facendo papa nero. Siamo già in quarta pagina oggi, non ti si filerà nessuno”
“La fai facile tu, ma che avete combinato?”
“Ma sai le quote…la consob, la federcasalinghe…insomma io l’ho fatto per i consumatori. Qualcuno cominciava ad accorgersi che quelle commissioni per le ricariche dei telefonini non sono tasse, ma richieste esosissime che si ciuccia l’azienda. Pensavo di dividere…confondere…girare la patata bollente insomma, in modo che lo scorporo…la ridistribuzione…”
Attenzione il suo traffico telefonico è inferiore a un euro (e meno male che l’ha inventato lei). Premere 1 per SOS sto affondando salvatemi. 2 per aumentare le tasse. 3 per far pagare la telefonata a Getiloni e anche la cena da Il paradiso del cicciolo
“Ma, come è possibile? Io ho la carta divina telecom….Gentiloni ma che hai vodafone?”
“Ehmm sì”
“Ma vaff..clik”
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lunedì 18 settembre 2006

Tu canonerai con dolore


Era una mattina zeppa di un sole scottarello. Con la mia motoretta, bordeggiavo a mezzo gas, lungo la nuovissima super strada delle lamiere contorte nell’intento umile di smettere di esistere nel luogo di partenza e cominciare a farlo in quello di arrivo. Convinto, come si è sempre in questi casi, che il secondo arrecherà vantaggi che il primo non poteva permettersi. Ci volle poco a capire che l’opzione smettere di esistere in ogni dove, faceva capolino dalle buche nel nuovissimo asfalto pluriappaltato. La segnaletica orizzontale mancava all’appello, rendendo la strada, una sorta di lunghissimo autoscontro. In effetti è plausibile che le righe per terra, per un errore di fornitura, fossero state tracciate in grigio bitume, ma essendo sprovvisto delle lenti a scansione di frequenza, non ho potuto appurare la cosa. Due lingue di guardrail modello scimitarra malese, scintillavano minacciose, mentre automobilisti patentati al cepu e camionisti in viaggio dalla seconda guerra punica, mi davano la giusta prospettiva del valore della vita.
A costellare questo monumento all’inefficienza, una serie spaventosa di sistemi di rilevamento della velocità assemblati grazie a schemi rinvenuti sull’astronave aliena custodita nell’area 51 di Gratosoglio. Uno di questi velox è in grado di calcolare la velocità di un mezzo dal livello di contrazione dei glutei del conducente. Ma quel semaforo che da 6 anni fa luci a intermittenza invece di diventare rosso, ancora non sono riusciti a ripararlo.
Una pattuglia di vigili armati di pistola laser e smolecolatore di patenti, mi ferma immediatamente dopo un segnale di limite 20. Io una volta ho provato ad andare a 20 all’ora. Sono caduto. Poi ho fatto un corso di trial e ora riesco a scendere fino a 11. Quel giorno io il limite lo stavo rispettando, ma uno Scania 12 assi (triplo poker), passandomi a un pelo di petto di camionista, mi ha risucchiato nella turbolenza, trascinandomi mio malgrado a velocità smodata. Con il solito gioviale atteggiamento da rettrice di istituto correttivo per minori, il tutore dell’ordine motorio mi eleva contravvenzione punticida. Nell’atto orgasmico di consegnarmi il verbale insanguinato, il vigile che in quanto tale è attento, nota nel cupolino del mio mezzo, un televisore LCD 12 pollici. Acceso. Dopo avermi chiesto che cosa stesse facendo l’inter, l’integerrimo agente, agisce andando su tutte le furie e minacciandomi di arresto, rischiando di suo, il cardiaco. Io, senza fare una piega (infatti ero fermo), estraggo da uno scomparto della tuta di pelle, una sudaticcia copia della gazzetta ufficiale e mostro all’omino in divisa, la legge n.1235 del 15 dicembre 1967 (e successivi aggiustamenti), grazie alla quale, compreso nel bollo di circolazione della mia motoretta, io paghi un canone di abbonamento autoradio e televisione alla RAI (nota azienda a conduzione familiare). Faccio quindi notare che trovo assurdo essere obbligato a pagare un canone per un servizio che la legge mi impedisce di utilizzare. E, vieppiù, mi chiedo se questo dazio sia compreso anche in altri balzelli, per tutelare la RAI da quelli che, la domenica, girano a piedi con una radiolina a guisa di estensione del padiglione auricolare.
Il solerte e affatto impreparato vigile, sguaina dalla custodia della pistola laser, l’articolo 17, comma 8, della legge 449 del 27 dicembre 1997, che così recita: “Sono soppressi il canone di abbonamento all'autoradio-televisione e la tassa di concessione governativa concernente l'abbonamento di cui alla legge 15 dicembre 1967, n. 1235”. Dannato urbano, hai vinto anche stavolta.
Con la marmitta tra le gambe, me ne torno al punto di partenza, apro un scomparto della dispensa di casa mia ed estraggo il faldone con i decreti legge dell’ultimo decennio. Non per sfiducia ma per sacrosanto scornamento. La legge esiste davvero, ma proseguendo la lettura, scopro che il vigile aveva spudoratamente omesso un dettaglio piuttosto rilevante: “A compensazione del mancato introito è assicurata al concessionario del servizio pubblico radiotelevisivo una quota pari a lire 210 miliardi annui”. Lo rileggo e con un gesto di matura signorilità, lo mastico e lo ingoio con un po’ di salsa rosa. Mi hanno tolto il canone dal bollo e, per fare pari, danno alla RAI 210 miliardi l’anno!! Chi glieli da? Chi ha fatto la legge? No. Il vigile? No. Chi paga le tasse, quindi anche io. Con un termine tecnico, tipico dell’amministrazione pubblica, questo flusso invisibile di denaro dalle nostre tasche a quelle di non si sa chi, viene definito presa per il culo.
Andando a pagare la multa per superamento del limite di velocità, passo da media world a comprare un plasma 42 pollici da montare sull’apecar.
Al dipendente dell’amministrazione pubblica, faccio sommessamente notare che l’accrocchio infernale che ha rilevato la mia velocità, non è adeguatamente verificato e tarato come da relativa norma europea (anche perché in Italia non esistono centri autorizzati per queste operazioni). Il gentile addetto alle relazioni con il pubblico, mi rende partecipe del fatto che nel nostro paese, in risposta a questa norma europea, invece di allestire centri autorizzati, si è pensato bene (anzi meglio) di fare un bel decreto per stabilire che i sistemi di rilevazione vanno sì tarati e verificati, ma solo quelli atti alla misurazione di spazio e di tempo. Caro vecchio italian style, fare leggi nuove per fregare quelle vecchie. Un po’ lo stesso sistema ecologico di spostare i limiti di tolleranza dell’inquinamento per non far scattare le misure di emergenza.
Ma qualcosa non quadra. Faccio altresì rispettosamente notare che una vecchissima e mai contraddetta, legge, stavolta della fisica e non dell’uomo, si ostina a sostenere che la velocità altro non è che spazio/tempo e che è quindi assurdo che le tarature si rendano necessarie per gli strumenti di misurazione di spazio e di tempo e non per quelli di velocità.
Quando, in risposta, lo statale mi ha chiesto in quale numero della gazzetta ufficiale avrebbe potuto trovare questa legge, ho pagato la mia multa, salutato e sono tornato a casa a vedermi, con occhi diversi, le bellissime ragazze di Pupe e Secchioni.

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venerdì 15 settembre 2006

I monologhi della valigina


Sono una valigina. Sono piccola ma ne capisco, capisco in quanto capiente, sebbene piccola. Sono elegante, pratica e, assolutamente svuotata da ogni presunzione, piuttosto di classe. Niente di esoso, sia chiaro, non sono la valigia dell’attore e nemmeno quella di un lungo viaggio, buttata lì sul letto. Però sono una valigina di tutto rispetto, non una di quelle borsone in cui si spinge tutto dentro a forza o, peggio ancora, a salti di culo (mi si passi il termine esotico, ho viaggiato molto). Io sono munita di scomparti, tasche e, non ditelo a nessuno, un geniale doppiofondo acconcio ad ogni evenienza. Una volta ci si mettevano calze di nilon per le avvenenti ragazze dell’est, per cercare un po’ di affettuosa gratitudine. Ultimamente mi ci ritrovo delle sigarette che piacciono molto ai cani all’aeroporto o, al limite, cilindri tremolanti amici delle donne. Ormai, ad essere sincera, non me lo usano da tempo (il doppiofondo non il cilindro): è il primo posto dove vanno a guardare, mi aprono e cercano il mio doppiofondo. Maniaci.
E poi, diciamola tutta, io rappresento il bene e il male della mobilità umana. Sono complice dell’omicidio che si commette partendo e un po’ morendo. Sono la gioia o la tristezza di lasciare un posto e quella di raggiungerne un altro, prima di essere svuotata e riposta senza troppo rispetto. Contengo sogni, speranze, illusioni e tristezze. Certo, contengo anche mutande, calzini e canottiere di flanella, ma è la nobiltà d’animo che conta. Nobile e mobile. C’è modo e modo di traghettare un paio di mutandoni.
Io viaggio molto. E’ il mio mestiere. Grazie alle linee aeree, viaggio molto di più di chi mi usa. Mi usa e mi ama. Lo so perché quando non lo raggiungo immediatamente, si dispera, smuove mezzo mondo pur di riavermi con sé. Ogni volta che ci separiamo, usa mille precauzioni per tutelare il mio benessere: mi chiude con lucchetti, mi adagia con tenerezza su un tappeto scorrevole e mi osserva allontanarmi con lo sguardo incerto di chi spera di riabbracciarmi presto.
A volte esagerano, mi avvolgono con strati protettivi, ma soffocanti, di pellicola trasparente e pagano perché la mia incolumità sia assicurata. Io mi sono informata e le cose stanno più o meno così (me l’ha detto una luis vitton di un certo livello): succede spesso che nel tragitto verso il mio posto prenotato in aereo, qualche avido e invidioso, profani la mia interiorità, per appropriarsi dei miei valori più cari. Così l’aeroporto propone a chi mi usa e mi vuole bene, di pagare un obolo, per garantire i valori di cui sopra. In pratica, questa struttura chiede soldi per tutelarmi dai reati che può commettere….un pizzo insomma, vengo taglieggiata per non essere tagliuzzata. Destino infame, una vita a sopportare pesi e a combattere, con trasporto, la criminalità organizzata.
Preferisco viaggiare in treno. Almeno controllo tutto dall’alto, da quell’amaca su cui qualche gentile giovanotto mi ha deposto, per farmi cullare dall’alta velocità, che, prodigi della tecnica, fa molto prima ad arrivare in ritardo. Negli ultimi anni però tutti mi guardano sospettosi. Una volta, nella peggiore delle ipotesi, potevo contenere un sarchiapone, ma oggi ci contano e se siamo più delle persone scompartimentate, ci osservano con terrore. E’ offensivo: ti pare che un terrorista usi un oggettino di classe come me per i suoi intenti bombaroli? Io do nell’occhio, piaccio.
La macchina la detesto. Chiusa in un cofano, quando va bene o legata come un salame sul tettuccio e coperta da un telo che svolazza schiaffeggiandomi senza sosta. Qualche genio dello stoccaggio ottimizzato poi, mi sbatte in testa una di quelle sansonite rigide da 90 litri piene di scarpe malfetenti. Io per dispetto gli frantumo la bottiglietta di profumo per non chiedere mai informazioni e gli restituisco i vestiti talmente impregnati da far invidia a un bordello di Las Vegas. Ci sono stata una volta (a Las Vegas non in un bordello), un casino. Veramente quella volta dovevamo andare a Lugano a guardare il lago dal portico di una banca, sorseggiando latte e cioccolato, ma per un impercettibile disguido della compagnia aerea, io mi sono ritrovata su un F-117 Nighthawk stealth fighter, diretto in una base segreta nel Nevada. Avete presente? L’aereo invisibile. Infatti nelle registrazioni degli uomini radar di Fiumicino si sente uno che dice “spazio aereo libero, però c’è una valigina che sfreccia nel vuoto a 12.000 metri di quota”.
Vita avventurosa la mia. Certo non difficile come quella di mio nonno cartone, tenuto insieme con un po’ di spago, in giro per gli oceani sbattuto in stive di terza classe, con la puzza di sudore dal boccaporto e odore di mare morto. Lui conteneva molte più speranze di me. Aveva proprio la forma adatta al trasporto delle speranze. Io vado bene per qualche pigiama, il cambio perché non si sa mai, il rinoepilatore da viaggio e altri oggetti che ormai vivono dentro di me, perché nessuno li tira mai nemmeno fuori. Si chiamano da viaggio per questo, perché viaggiano e basta.
Ho voluto parlarvi di me perché durante l’ultima trasferta mi hanno infilato in una tasca questo libercolo (da viaggio): i monologhi della vagina. Per non farlo sentire inutile, l’ho letto io, giusto per non fargli fare un giro a vuoto. Così mi è venuta l’idea di fare il mio monologo. Non mi metto certo in competizione con lei. Lei è più importante di me (anche se meno capiente), pare addirittura che il mondo intero le orbiti attorno. Però anche io sono compagna inseparabile di uomini e donne e mi amano (da cui il termine bagaglio a mano), anche io nascondo dei segreti e anche il mio aprirsi o chiudersi è sempre foriero di gioie e dolori.
Pensateci, durante l’erotico gesto di far scorrere la mia zip.

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giovedì 14 settembre 2006

Sarti mortali


C’è stato un tempo, non ci crederete, in cui la Cina era lontana. Anzi, il mondo era lontano dalla Cina. Quell’immenso paese, ricco di omini, di storia, di carta di riso e canna di bambù, non voleva contaminarsi e proteggeva i propri giovani dall’epidemico morbo occidentale dell’edonismo e della ricerca del benessere. Per qualche sfuggente motivo, ciò non ha impedito ai simpatici orientali di creare piccole cine sparse in tutto il mondo. Pare ci sia una chinatown anche a Pechino.
In quegli anni, agli atleti cinesi non era concesso misurarsi in competizioni internazionali. Del resto erano in numero sufficiente ad organizzare dignitose cinesiadi (l’idea dei numeri sulle maglie è loro, per ovvi motivi, solo che loro usavano gli esponenti). I metodi di allenamento erano, con tutta probabilità impostati sulla massima disciplina psico-fisica, l’assoluta rigidità dei regolamenti e l’imperativo di ottenere risultati. Insomma non è che potevi fermarti a parlare con la tipa del nuoto sincronizzato e saltare un allenamento per limonare di nascosto sott’acqua (anche perché lei ci rimane molto di più e non smette certo di limonare: chi c’è c’è).
I tuffatori, in particolare, raggiunsero livelli tecnici sconosciuti nel resto del mondo. Pare grazie a tecniche di addestramento crudeli e massacranti. Non potevano uscire di casa dalla porta: dovevano lanciarsi dal balcone, eseguire almeno 4 carpiature per piano ed atterrare di testa direttamente nella risaia senza schizzare nemmeno una mondina.
Fatto sta che all’apertura delle frontiere sportive, la comunità tuffante internazionale restò sbigottita. I cinesi, in 3 metri di tuffo, piroettavano e carpiavano come una trottola impazzita, mentre il miglior atleta occidentale era fermo al tuffo bomba e la spanciata sincronizzata. Gli organismi internazionali dovettero inserire delle regole ad hoc per non rendere le gare delle pagliacciate. Furono vietati i tuffi in cui fosse impossibile contare a vista i mortali (non nel senso di esseri viventi tendenti al morente), nell’attesa che lo studio di nuove tecniche e di nuove medicine per la fiacca, mettessero tutti i tuffatori allo stesso livello.
In pratica, sono state necessarie nuove norme, per consentire lo svolgimento di eque competizioni. Lo stesso discorso vale oggi per il mercato economico e commerciale. La Cina apre le frontiere, ma in un’economia fondata sulla competizione le regole di base dovrebbero, in teoria, almeno somigliarsi vagamente. In Italia il costo del lavoro è altissimo ma la relativa cultura no. Qui un lavoratore che passa il tempo a grattarsi la pancia in attesa delle ferie, denuncia il datore di lavoro perché non gli piace come si veste e vince la causa. In Cina se un superiore pesta un piede a un impiegato, la famiglia del lavoratore rinuncia ai 2 giorni di ferie spettanti nell’anno, compra un paio di scarpe nuove e organizza una cerimonia per farne dono al superiore.
Le idee sono perlopiù copiate, la forza lavoro produce di più, in meno tempo, costando meno. Il grosso degli utili prodotti finisce nelle capienti tasche di una potente oligarchia, se a questo aggiungiamo che le normative doganali sono scritte a matita, in cinese antico, sul manuale delle giovani marmotte cinesi, si fa presto a considerare che, se non mangiamo ancora come dei panda è perché la Cina non ha ancora raggiunto un adeguato sviluppo tecnologico e qualitativo.
In questo panorama al tofu, Prodi San vola nel Canton vicino. Giunto dove Marco Polo (avo di Lacoste) giunse e, una volta chiarito l’equivoco su “reverendo Prodi”, scambiato per la solita presa per il culo, il nostro presidente elargisce sorrisi a mandorla come se fosse l’anno della mortadella. Dichiara che l’avvento (non esattamente ortodosso ndr) della Cina nel mercato mondiale è un’opportunità e non un pericolo. Per molti italiani impiegati nelle aziende tessili è stata sicuramente l’opportunità di trovarsi un altro lavoro o di sperimentare la propria mortalità, attraverso gli stenti. Ma il molto onolevole plodi parla della fiat! Ancora? C’è ancora qualcuno che ha il coraggio di usare la fiat come parametro di valutazione dell’industria italiana? L’unica grande azienda del nostro paese (a parte l’azienda stato), tenuta in piedi da 58 milioni di finanziatori coatti, oltre che clienti esacerbati! L’Italia produttiva non è la fiat (al limite ha la fiat), ma migliaia di piccole e medie imprese, soffocate dalla burocrazia e dalla concorrenza sleale. Certo, siamo correi del delitto che ci vede vittime, perché è anche grazie a commercianti senza scrupoli e acquirenti sconsiderati, che il sistema cina, sta mietendo vittime nostrane.
E il romanone nostro ride. Ospite in un paese dove la pena di morte è un piano educativo, dove le violazioni dei diritti umani fanno impallidire Guantanamo, dove il commercio internazionale si ispira a modelli da mercatino delle pulci su scala planetaria e i lavoratori sono tutelati solo nelle poche grandi aziende straniere…..il nostro primo ministro applaude soddisfatto, le grandi opportunità che la rinnovata fiducia e il dialogo, apriranno per i nostri antipodici paesi.
La prossima volta mandiamoci la triade: CGIL, CISL e UIL alla conquista dell’oriente!

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martedì 12 settembre 2006

Il silenzio ha senso


Chi tace acconsente, oppure, come ripeteva mio nonno, chi tace non dice niente. Ma il silenzio ha solo due alternative: comunicare qualcosa o non esistere. Destino bizzarro per qualcosa che, se esiste, è l’assenza di qualcos’altro. Quanti volti ha il silenzio? Infiniti. No, meno, molti meno. Non più di ventitre comunque, secondo le ultime stime.
C’è il silenzio della giornalista del post di ieri. Che accortasi di aver mancato di professionalità, ha preso il frutto della vergogna, lo ha avvolto in un panno nero e nottetempo lo ha gettato nel cassonetto differenziato per il frutto del t’ho beccato. Non ha potuto scegliere il raccoglitore di refusi perché non ha distrattamente scritto fiocchetto rovagnati al posto della parola presidente. No, ha dato un’informazione non vera senza controllarne fonti e attendibilità. Il passaggio incriminato non c’è più, nel vuoto lasciato c’è un silenzio. Non un cenno, delle scuse, una smentita, almeno per tranquillizzare gli amici che si stavano chiedendo con chi avessero avuto a che fare per 15 anni. E quel silenzio che significa? Che qualcuno può permettersi cose che ad altri non sono consentite? A quanti di voi, nel posto di lavoro è concesso mancare di attenzione senza dover poi rimediare o fornire spiegazioni? O forse qualcuno si crede troppo superiore per chiedere scusa? O semplicemente significa magari non se ne è accorto nessuno? Quello che sicuramente significa è che ora io sembro un allucinato che vede notizie fantasma (nessuna novità peraltro).
E ci sono altri silenzi. Quelli vuoti che rimbombano di nulla, che ci fanno ascoltare il riverbero dell’assenza, del vuoto. Quei silenzi che, provenendo dall’esterno, diventano desiderio di pace, di serenità e a volte di fuga. Mentre sentendoli da dentro, creano mostri di angoscia e triste ferocia.
Ci sono i silenzi pieni, ricolmi di cose non dette e gesti non fatti. Quelli che una certa cultura della dialettica, considera di livello etico superiore alle menzogne, ma che spesso devastano più di ciò che è falso.
Ci sono i silenzi familiari. Quelli che ti accompagnano a letto, la sera, che ti chiudono gli occhi e se ne vanno, senza nemmeno salutare. Così capita che ti svegli e loro non ci sono. Perché i mobili parlano, perché la televisione, che hai spento da poco, si lamenta, si contorce, come a volersi riaccendere, ribelle nel sul destino di soprammobile, mentre sa di poter essere audience. Il potere.
Poi di colpo loro tornano. Ma solo per affinarti l’udito. Non senti niente. Brutto segno: i ladri non fanno rumore. Diventi una specie di pipistrello, immobile, non potresti non esserlo, ma sai valutare la voce dell’edificio che ti contiene, della strada intorno e poi del mondo intero. Finchè, pietosi, i silenzi ti ridanno il sonno e ti permettono, la mattina dopo, di ridere di te stesso per non vergognarti un po’.
E il silenzio assenso, che vorrei, per assonanza, che indicasse quanto è importate a volte tacere, invece di essere una truffa commerciale mascherata da saggezza.
Infine (non arrivo a 23 tranquilli) c’è il silenzio infame. Quello che priva di qualcosa, che ti mette in condizioni di perenne sfavore, rispetto a chi tace. Come il silenzio sulla nuova medicina del dott. Hamer. A volte mi sento dire “ma possibile che se le cose stanno davvero così nessuno dica niente?”. Questa domanda mi mette i brividi, la sua risposta dovrebbe metterli a tutti. Perché non si parla di Hamer? Dal punto di vista giornalistico è una bestemmia non sfruttare questa occasione. C’è tutto: omicidi, nobili cattivi, poveri buoni, malati da lacrime a disidratazione, l’ipotesi della cura del millennio, castelli che crollano, persecuzioni, violazioni di diritti umani, logge potentissime, accuse infamanti e persino guerre di religione che fa tanto post moderno. Eppure nulla. E sia chiaro, non sto nemmeno affrontando il problema nuova medicina in sé. Resto fuori dal discorso clinico, per quello, la storia e l’uomo parleranno. Ma anche se fosse tutto sbagliato, tutti questi fatti, legami, eventi misteriosi, ci sono davvero e c’è persino lo spunto per cominciare a raccontare: il “principe” ciccio e le sue bizze da ricco sporcaccione. Ecco c’è anche il sesso, che volete di più? Tutta questa storia fa impallidire la vicenda Di Bella, per cui si sono mobilitati i media di tutto il mondo occidentale, per non parlare di ministeri, università e scienziati.
Ma su Hamer, silenzio. Persino Amnesty International ha voluto tacere sui diritti umani calpestati dai tribunali francesi (come quelli che hanno assolto Vittorio Emanuele per la morte di Dirk), rispondendo che non può certo occuparsi di tutti gli uomini in carcere.
Come può non interessare la stampa una storia simile? Una stampa affamata come una balena inseguita, al punto di ridursi a parlare di telefonate tra erotomani.
Il cancro. Stiamo parlando della morte silenziosa di milioni di persone. Stiamo parlando di una delle più redditizie industrie che l’uomo conosca : quella degli strumenti per fermare la morte, la sofferenza, la paura, probabilmente seconda solo all'industria che le crea.
Il silenzio su Hamer comunica cose che è difficile ascoltare. Come il silenzio sulla morte di Bove e tutti i silenzi che la gente non vuole sentire.
Sono i più difficili da accettare, quelli che vengono coperti di parole inutili, quelli che ti spingono a pensare che le cose importanti sono altre, mentre soppesi perplesso, che quell’intellettuale di Muccino dev’essere impazzito per limonare con la Canalis.

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lunedì 11 settembre 2006

Giornalisti, avvocati e varia umanità


Mi illudevo di essere munito di una dignitosa forza di volontà. Purtroppo, il fatto di non vedere la luce alla fine del tunnel dei miei vizi maledetti, mi ha fatto ricredere. Ho dato ordine al mio edicolante di spararmi a vista, ho assemblato un algoritmo che si attiva entrando nelle pagine web dei quotidiani on line distruggendo l’hard disk e, attraverso delle società off shore, trasferisce tutti i miei risparmi su un conto cifrato intestato a Aroldo Tieri. Niente da fare, continuo ad assumere prodotti del giornalismo italiano. Ho addirittura pensato di citare in giudizio l’Ordine perché sulle testate non viene specificato che la lettura degli giornali può nuocere gravemente alla salute, ma poi ho letto un articolo su repubblica on line e ho cambiato idea.
Il pezzo in questione, tratta la riapertura del caso della morte di Dirk Hamer causata dal “Principe” Vittorio Emanuele (in Italia, da Costituzione, i titoli nobiliari non hanno alcun valore) di cui ho già parlato trattando la nuova medicina. In estrema sintesi: nel 1978, a seguito di una diatriba dagli alti contenuti filosofici, in merito all’utilizzo di un tender (il canotto che si trova sulle barche, citato anche nella canzone Love me tender: amami canotto), il “principe” optò per dirimere la questione argomentando le sue teorie a fucilate. Ne fece le spese un giovane di passaggio, Dirk Hamer appunto, che, ferito, malsoccorso e malcurato, morì dopo 111 giorni di agonia. Il “principe” fu assolto da un tribunale francese, tra espressioni sconcertate e ghigni ferali (e questo è uno dei motivi per cui non faccio causa all’ordine dei giornalisti, ma riprenderò il discorso più avanti).
Nell’articolo si legge quanto segue: “La famiglia Hamer si è ridotta alla sorella Birgit: i genitori, entrambi medici, sono morti ancora prima che si arrivasse al processo, celebrato 13 anni dopo la sparatoria, la madre stroncata da un attacco cardiaco, il padre da un cancro”. Il padre di Dirk, il dottor Ryke Geer Hamer è, grazie a dio, ancora vivo, nonostante persecuzioni, attentati e gufate. Non si può nemmeno dire che abbia finora vissuto una vita ritirata. Dopo la morte del figlio, ha elaborato un rivoluzionario ed efficacissimo approccio alle malattie oncoequivalenti (con cui ha curato anche se stesso e la moglie, prima che morisse di infarto), ha scritto libri, ne sono stati scritti su di lui e sulle sue teorie, è stato perseguito e arrestato con sistemi che hanno scatenato proteste popolari, pochi mesi fa è stato rilasciato e ha scritto una sorta di memoriale-ringraziamento, che ha indirizzato a chi, in tutto il mondo, ha seguito con apprensione le sue incredibili vicende. Tra questi non c’era, immagino, la giornalista di repubblica che, ricordandosi qualcosa circa il cancro, ha deciso di farlo morire per un tumore, più di 15 anni fa. Forse perché la frase “la famiglia Hamer si è ridotta alla sorella Birgit” dava una mano di toccante drammaticità.
Io, tempo addietro, mi sono informato sulle norme vigenti che regolano il mondo dell’editoria e dell’informazione, per cercare di capire come un pinco palla come me, potesse pubblicare e diffondere la propria opera (va be’ operetta). Gli schemi del progetto di una centrale a fusione nucleare sono un tantino più semplici. I codici da seguire cambiano a seconda di come vuoi scrivere, per quanto tempo, di che argomento tratti, con che periodicità lo fai, se vuoi vendere il tuo prodotto, come e dove vuoi venderlo e soprattutto è fondamentale indicare il luogo dove reperire la persona da arrestare nel caso di virgola fuori posto o mancato rispetto di micrografica postilla apparsa su fantomatica circolare ministeriale barraqualcosa. Poi leggi il quotidiano nazionale a maggiore tiratura e ci trovi notizie scritte a caso, senza nemmeno l’attenzione di una semplicissima verifica. E i giornalisti si lamentano di non godere sempre della libertà che l’informazione merita. A me i Serventi Longhi, fanno paura!
Tornando all’idea di adire alle vie legali, mi ha molto scoraggiato una frase del Codacons in persona, citata nello stesso articolo, inerente l’assoluzione del “principe” per il caso Hamer e la successiva espressione di giubilo per aver “fregato i giudici”: “Nello specifico, se Vittorio Emanuele ha gabbato a suo tempo i giudici francesi, questo vuol dire che egli ha esercitato bene il suo diritto etico e giuridico di difendersi”. Non voglio riaprire l’annosa discussione sull’attività avvocatizia di difendere un colpevole (sacrosanto diritto) e nemmeno quella più complessa di trovare un modo di mandare impunito l’autore di un delitto. Ma a me leggere che il Codacons (coordinamento delle associazioni per la difesa del consumatore) trovi il gabbare un giudice, un esercizio etico dei propri diritti, ha fatto drizzare tutti i peli sulle piante dei piedi. Passi per esercizio giuridico, ma etico?? Messa così, la dichiarazione, fa sembrare che il processo sia andato così perché qualche bravo avvocato è riuscito a turlupinare un paio di parrucconi togati. Come se fosse una sfida tra giuristi (infatti il Codacons prosegue “probabilmente quei giudici che hanno sbagliato erano o incapaci, o incorrotti”), ma forse sfugge che gabbare un giudice significa gabbare la giustizia. E’ un tradimento dell’istituzione sociale.
Sicuramente qualche buon avvocato riuscirà a dimostrare che tutto ciò sia etico, io intanto mi pettino i peli delle piante dei piedi.

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venerdì 8 settembre 2006

Mi libertad es tu libertad


Qualche giorno fa ho perso un lavoro importante. Non importante nel senso che mi ci compravo la barca per andare da Briatore in Sardegna (e mi aveva invitato eh), no no, ma per l’affitto del mio bilocale e la rata del divano. L’ho perso perché al responsabile di un’azienda faceva più comodo accontentare un altro. Così mi è venuto in mente Santoro, mi sono piazzato davanti al datore di lavoro che fa scelte che non mi garbano e ho cominciato a cantare Bella ciao. Perché non può esserci libertà in un paese dove uno preferisce un altro a me. E’ assurdo. Anche qui al centro di igiene mentale la pensano come me. Il ricovero coatto mi ha dato tempo per pensare. Santoro dice di essere stato cacciato da Berlusconi. La Rai, lottizzata per anni peggio di un campo di graminacee, non era di Berlusconi. Nelle televisioni del cavaliere tutti i programmi culturali o comici, parlano male del proprietario, l’unico programma comico che ne parla bene è il tg4. E così non capisco. E’ vero, l’editto di Sofia l’ha proclamato il Berlusca e si può discutere anche sui motivi. Uso criminale del servizio pubblico. Ho visto Luttazzi portare merda (proprio quella fumante) in televisione perché così si è molto alternativi. Santoro attuare dei linciaggi mediatici (ricordo anche un suicidio di un sottufficiale dell’arma il giorno dopo essere stato massacrato senza contraddittorio), Biagi….boh, una noia mortale. Però sicuramente ci sono anche buone argomentazioni opposte, io non le so, ma qualcuno sicuramente sì. Fosse mai che a qualcuno interessava più sputare su Berlusconi che difendere il trio bulgaro????? Ooooh.
Allora ho cominciato a pensare alle varie reazioni. Santoro ha fatto causa e l’ha vinta. Grazie a valori quali libertà e costituzione e a parolacce quali censura e diktat. Quello che voleva era tornare ad esprimersi, dimostrando così che l’Italia è un paese libero. Ok, bravo, causa giustamente vinta. Obbligo per la Rai di rimetterlo in onda. E lui che fa? Non fa più il giornalista! Come? Santorino! Era quello per cui ti sei battuto!! Il paladino dei valori, preferirà prendere soldi dalla Rai (cioè noi) senza lavorare e dal parlamento europeo (cioè noi) facendo non so cosa. Il tutto innalzandosi a martire nazionale e avvolgendosi in un’aurea di solennità conferitagli dal fatto di essere stato “cacciato da Berlusconi”. Allora penso: secondo me lui le rate del divano le ha pagate tutte, a fare il giornalista non ci è voluto tornare, è diventato famosissimo, ha scelto liberamente che fare della sua vita, ma perché fuffolo vuole sembrare a tutti costi una vittima del sistema? Eppure con i programmi che faceva, le vere vittime dovrebbe conoscerle. Ora ha deciso liberamente di tornare, gli danno subito spazi e risorse e che fa? Fa ancora il fenomeno, parla come una sorta di Mandela liberato e fa anche il tollerante, che perdona che non ha rancori!! Ah Santò vorremmo anche noi poter avere i nemici i soldi e le possibilità che hai tu! Altro che mancanza di libertà perché TU non puoi fare quello che ti pare quando ti pare e dove ti pare (che poi è quello che fai).
Adesso il Santoro “censurato” appare su tutti i giornali annunciando la sua ultima decisione. Distribuisce perle di giustizia sociale manco fosse Mao. Dichiara che il diktat finirà solo quando torneranno in Rai anche Biagi e Luttazzi. La trimurti. Altrimenti non c’è libertà. Fa piacere sapere che loro sono la cartina di tornasole (e tornasantoro) della libertà. Miliardari di sinistra che pretendono. Mentre le vere ingiustizie distruggono i poveracci.
Luttazzi, già sopravvalutato prima (ha solo infarcito di parolacce lo stile di Woody Allen, peraltro scandendole malissimo), ora si gode anche lui i proventi della cacciata del cavaliere. Grande risonanza e turnee tuttoesaurito durante le quali insulta e…insulta. I suoi spettacoli sono la dimostrazione più alta che in Italia non c’è nessuna censura. Mentre se provi a toccare qualcuno di questi simboli di libertà, ti crocifiggono in sala mensa.
Biagi ha dichiarato “Dopo quarantacinque anni di televisione sono stato licenziato. Il direttore generale Agostino Saccà mi ha mandato la disdetta del contratto con ricevuta di ritorno, che è la cosa che mi offende di più”. E allora? Puoi accontentarti no? Sono quarantacinque anni che dici la tua attraverso il canale più ascoltato d’Italia santiddio. Se l’azienda dice “facciamo parlare anche qualcun altro?” non mi sembra si tratti di atto liberticida. Anche perché Biagi ha tanti altri modi per farsi sentire e anche i suoi libri ne hanno tratto giovamento, al botteghino. Un tizio che conosco ha lavorato 25 anni nei sindacati ed è stato licenziato. Non sa che altro fare, non ha gruzzoli da parte e non sa a chi rivolgersi. Ha provato ai sindacati ma pare gli abbiano risposto che avevano già analizzato il suo caso e confermavano il licenziamento. E noi veniamo sobillati a pensare che se Luttazzi Santoro e Biagi non sono liberi di lavorare dove e come vogliono loro, significa che viviamo in una dittatura fascista da sovvertire. Amico Biagi, sono 45 anni che parli, abbiamo vagamente capito come la pensi, non è che si possa dire che è stato messo un bavaglio alle idee e alle opinioni. Ricordo con rispetto viscerale, l’intervista al Mentana defenestrato. Disse con dignità e saggezza “io non sono uno di quelli che pensa che se non lavoro io significa che manca la libertà”. Sarà la tempra dell’interista votato alla sofferenza, ma dio ti preservi satollo Mentana!!
Insomma devo ancora sentire Santoro che si lamenta in continuazione. Parla come se fosse un talento stratosferico, come se chiuque dovesse prostrarsi al suo solo passare. Ora ha voglia di tornare, gli affidano subito spazi e risorse (ma chi ha queste fortune?) e lui si lamenta lo stesso: “Anno Zero comincia, ma non siamo mica inseriti in un progetto facciamo queste 11 puntate poi si vedrà. Anche il luogo è precario.” Poverino, gli fanno solo fare queste undici puntate poi si vedrà. A me l’azienda ha detto “guardi lei è bravo ma ci conviene di più far lavorare l’altro”. Ma sicuramente Santoro si sente di valere più di me, più delle migliaia di lavoratori precari e quindi può sfrangerci gli ammennicoli senza sosta perchè non gli danno il giocattolo. EBBASTAAA!

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martedì 5 settembre 2006

La caduta dell'intero Romano


Non è facile valutare l’effettivo cambiamento delle cose che ci circondano se le osserviamo con continuità. Se aveste montato specchi di legno in casa dieci anni fa e provaste ora a guardarvi, probabilmente vi chiedereste i documenti da soli. Essendo invece abituati alla vostra faccetta, sbirciarvi in uno specchio vi trasmette sempre una certa sensazione di familiarità. Lo stesso vale per il contesto in cui viviamo e solo alcuni rari eventi destabilizzanti ci fanno risvegliare dal torpore abitudinario ed esclamare “pofferbacco, ma allora le cose stanno così”. Giusto l’altro giorno mi sono imbattuto in una di queste sveglie emozionali. Ero sulla carrozza di una metropolitana che strisciava vermosa nel ventre di Milano. Ovviamente ero l’unico italiano presente. Venti anni fa non era così, ma la modificazione graduale delle etnie viaggianti, ha reso questo cambiamento inavvertibile. Nel centro del vagone si esibiva un gruppo di tzigani, riproducendo The dark side of the moon (ma poteva trattarsi anche di Pollon combina guai), con 4 elastici e un flauto di traverso. Attorno a loro, un manipolo di albanesi, insultava i suonatori ridendo a piene mascelle. Di fianco a me, un uomo di colore solleva lo sguardo da La Padania, mi lancia un’occhiata di triste complicità e scuote la testa con aria rassegnata di disapprovazione. Da quel momento la mia visione dell’Italia è cambiata radicalmente. Siamo al punto in cui un africano si lamenta della presenza di stranieri! Qualcosa deve essere sfuggito alla mia osservazione sociale.
Frattanto leggo sul giornale una dichiarazione del signor Fioroni. Non sapete chi è? E’ il ministro della pubblica istruzione del governo prodigo e romano, suvvia! Non me lo ricordavo nemmeno io, fortunatamente il giornalista si è informato e ha scritto anche la professione. In pratica il signor Fioroni esterna, in merito alla massiccia presenza di stranieri nelle scuole dell’obbligo, quanto segue: "La cittadinanza non può essere solo cartacea e nemmeno una scelta di bisogno, ma una decisione consapevole di chi studia la lingua italiana e apprende la cultura del nostro Paese, mantenendo però anche la propria lingua e la propria tradizione". Lui mi sa che la metropolitana non la prende mai.
A parte che se la popolazione straniera presente in Italia, fosse limitata a chi è giunto qui per consapevole scambio culturale, avremmo da gestire l’integrazione con un gruppetto di americani, qualche giapponese macchinatracolla e un mio amico di San Marino. Non si può inoltre non constatare (se me la sento uso delle negazioni) che nelle scuole sono sempre più i bambini italiani a doversi adattare, cercando di mantenere un po’ delle proprie tradizioni. Per esempio, dalle mie parti, una mensa scolastica ha chiuso perché i bambini indiani e pakistani (cioè quasi tutti), vanno a casa a mangiare, perché i genitori non vogliono contaminarli con spaghetti, pizza e mandolino. Così i pochi italiani non sanno più dove mangiare, perché mamma e papà sono in giro a cercare i soldi per il mutuo casamacchinacucina. L’unica alternativa possibile è che la mensa diventi indiana e i pargoli nostrani si adattino.
Prima di prendere del sozzo razzista, mi occorre urgenza di chiarire. Sto cercando di seguire un percorso darwiniano, perché tanto qui di integrazione è inutile parlare. A parte qualche sparuto esempio di buona volontà, a nessuno interessa accettare e capire il modo di vita degli altri. Quindi analizziamo la cosa da un punto di vista evolutivo. Chi ha più probabilità di sopravvivere e imporre il proprio dominio? Intanto chi riesce a prolificare in abbondanza, in secondo luogo chi riesce o a sopraffare i nemici o a ottenere successo sociale in riferimento ai valori dominanti (va be’ non lo so perché la lumaca è ancora viva). Qui da noi se una coppia fa un figlio è grasso che cola (e di solito è grasso pure il figlio), mentre accade di frequente che gli stranieri provvedano ad assemblarsi piccole squadre di calcio in casa. Pensateci bene, perché insistono tanto sul vietare l’aborto? Non per motivi religiosi o etici, ma per poter competere con le feconde ondate di stranieri, ignari dell’esistenza di Ogino e del suo amico Knauss. Poi c’è il fattore sociale. In occidente contano i soldi. Conta quello che hai e che puoi procurarti. Gli italiani non guadagnano più abbastanza per soddisfare tutti i propri vizi, mentre certe etnie, lavorano senza sosta spendendo pochissimo. Un mio amico pakistano fa quattro lavori, di cui 3 da sveglio, non ha vizi, non fa vacanze, non si compra quasi niente e abita in un appartamento grande come il mio con altri 15 parenti che vivono allo stesso modo. Capirete che la bilancia commerciale è paurosamente in attivo. Infatti si stanno comprando tutto il centro storico. Mentre gli italiani vendono, perché il cayenne per ovviare all’impotenza è caro, fare il cazzone alle maldive costicchia, una maglietta puro cotone con una margherita sopra la vendono in gioielleria eccetera eccetera.
Per questi motivi non ci sarà una vera integrazione, ma di questo passo, verremo semplicemente soppiantati. Siamo dei novelli antichi romani, impigriti dall’ozio, che si vedranno soffiare il regno costruito col sudore delle fronti genitoriali, mentre cercano di non strozzarsi ingoiando chicchi d’uva in posizioni improponibili. Abbiamo costruito un modello basato sull’efficienza e ora, chi è più efficiente di noi, se ne approprierà. Senza guerre, senza violenza. Se Darwin ha ragione, possiamo solo sperare di essere fortunati come le lumache.

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lunedì 4 settembre 2006

L'83,5% delle statistiche è sbagliato


E’ di nuovo l’ora di matematica. Non sbuffate che oggi interrogo anche. No, no Aldrighetti, non mi interessa che non hai potuto studiare perché è morta tua nonna, te ne devi fare una ragione, è successo 12 anni fa. Dunque, cominciamo con un problemino semplice semplice:
a=b
Semplice no? Lo so che molti di voi si staranno chiedendo che accidenti significhi “=”. Vuol dire uguale, cioè a è uguale a b. Voi vi starete domandando perché non si chiamano allo stesso modo se sono uguali? Perché altrimenti la matematica sarebbe un casino infernale. Ma andiamo avanti, moltiplichiamo tutto per a:
a^2=ab
Bene ora aggiungiamo a^2-2ab ad entrambi i termini dell’equazione:
a^2+a^2-2ab=ab+a^2-2ab
Perfetto, no Begani non ci vai più in bagno, ci vuoi prendere la residenza? Ora raccogliamo:
2(a^2-ab)=a^2-ab
Ora per concludere dividiamo tutto per (a^2-ab) risultato:
2=1
Quindi la matematica è tutta sbagliata, voi siete degli zappatori e io vengo pagato per insegnare fesserie. Anche se a pensarci bene potrei non sbagliarmi di molto, in realtà le cose non stanno così, perché nei precedenti passaggi, apparentemente corretti, c’è un piccolo baco che porta poi a quella impossibile conclusione. Soltanto pochissimi di voi, non matematici, saranno in grado di scovare lo strafalcione euclideo, ma dovranno mettercisi di buzzo buono. Ci sono delle regole in matematica che vanno rispettate, altrimenti arriva il primo cretino e dice “ah allora 2=1, quindi aveva ragione Nobel a non dare i premi ai matematici”. Comunque divertitevi.
Giocando con i numeri è facile stupire, ma anche gabbare. Unendo le due cose, vi stupireste scoprendo quante volte siete stati gabbati grazie all’abuso di matematica. Grazie al fatto che chi sa ha un’arma in più di chi non sa o non ne vuole sapere. Facciamo alcuni esempi giacchè scorgo degli enormi punti interrogativi che svettano sulle vostre folte chiome: questo meraviglioso dentifricio inventato mentre seguivo un runner al parco come un maniaco o spaccandomi il bacino scivolando sulle palline di mio figlio, si sbarazza del tartaro il 90% in più di un normale dentifricio. Ooooh! Il 90%!!!!! Corriamo ad acquistare l’ammazza tartaro. Aspetta, lascia stare la tessera sociocoop e l’euro per il carrello. 90% è un bel numero…è quasi tutto. Ma 90% di che?? Non notate che vi manca almeno un dato? Che cos’è un normale dentifricio, ma soprattutto, quanto tartaro toglie? Supponendo che un normale dentifricio si disinteressi con boria del tartaro e che, incidentalmente, ne rimuova, diciamo, l’1% giusto per simpatia. Ne deduciamo che il nostro eccezionale dentifricio specifico anti tartaro, rimuove l’1,9% della schifezza intradentale. Ovviamente nella pubblicità non dicono “è efficace all’1,9%", ma che è efficace il 90% in più di uno normale. Potenza dei numeri. Il prodotto specifico magari costa il doppio di uno normale, in cambio di un incremento di prestazioni irrisorio. E noi assaliamo la cassiera digrignando i denti tartarosi. Persino chi ha la dentiera se lo compra, per inerzia.
E questo è anche un trabocchetto semplice da scovare. Molto più insidiosi sono quei grafici che descrivono quanto migliori la tua vita dopo l’utilizzo di un crema per i calli. Di solito questi grafici presentano curve impazzite che si impennano come un super giovane su una motoretta con la marmitta proma. Tanto pochissima gente sa analizzare l’impostazione dei parametri sulle ascisse e sulle ordinate. Magari quel grafico indica che tra duecento anni potremo ritrovarci con mezzo callo di meno, ma non tutti, seduti sul cesso, si mettono a studiare le etichette dei flaconcini. La cosa triste è che questi “mezzucci” vengono usati anche per cose serie, tipo medicinali o terapie.
Non parliamo poi delle statistiche, vero e proprio lato oscuro dei numeri. Già capire la differenza tra probabilità e statistica è privilegio di pochi. Per esempio: se lancio 10 volte una moneta ed esce sempre testa, cosa pensate uscirà all’undicesimo lancio? La probabilità statistica che una moneta lanciata 11 volte dia sempre testa è bassa, ma al momento dell’undicesimo lancio, la probabilità matematica che esca testa è uguale alla probabilità opposta, perché, come si dice “non ha memoria”. Lei no ma io sì, direte voi, me lo ricordo che è uscito 10 volte testa!! In definitiva che cosa uscirà? Non può dirvelo nessuno, perché l’unico fatto indiscutibile è che la realtà se ne sbatte allegramente dei numeri e delle statistiche. Guardate Messner, ha scalato tutti gli ottomila della terra, da solo, in compagnia, con ossigeno, con l’elio, con una mano legata dietro la schiena, nudo, bendato….e poi si è rotto una gamba salendo un muretto della sua baita. E infine Steve Irwin, famoso per i suoi documentari con le belve feroci. Affrontava coccodrilli a mani nude, correva dietro alle tigri, dormiva avvolto in serpenti velenosi di 300 kg tanto che il suo agente assicurativo è finito in una clinica psichiatrica imbottito di ansiolitici. E poi? Fa un tuffo in mare, arriva una comune pastinaca, lo punge e muore. Il destino ci ha regalato i numeri per crearci modelli della realtà e lasciarci lì ad osservarli mentre Lui li smonta senza pietà.

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venerdì 1 settembre 2006

A 4 passi da Pamela Anderson


Un po’ di tempo fa sentii alla radio un gioco davvero interessante. Si trattava di suffragare con esempi pratici una teoria secondo la quale chiunque possa arrivare a conoscere una qualunque persona del globo grazie a un massimo di 6 collegamenti. Per esempio: come posso arrivare in quattro passaggi da lo Cruman a Pamela Anderson? Lavorando ed indagando, si trattava di capire che il barbiere de lo Cruman (Postatore Sano, primo passaggio) è pure quello di Franco Califano (secondo passaggio) che nel lontano 1992 suonò alla fiera di New Orleans con Tommy Lee, l’ex marito (terzo passaggio) della bella biondona (quarto passaggio). E il gioco è fatto. Ora, stregato da questo contorto e assai interessante gioco, lancio io stesso un sondaggio e vi chiedo di farmi conoscere anche una sola delle seguenti persone. Perché se davvero esistono, posso rinunciare a chiedere il numero di Pamela a lo Cruman e vivere comunque felice. Insomma, mi fate conoscere qualcuno che…

…sia riuscito a perdere 8 chili in 12 giorni con il solo ausilio di uno strumento per addominali e di una videocassetta (peraltro pessimamente doppiata dall’americano)? Me lo chiedo sempre più spesso: facendo zapping è frequente incappare in veri e propri presunti miracoli, documentati da eloquenti foto del “prima” e del “dopo” che testimoniano come un omone di cento e passa chili dotato di addominali alla zuava riesca miracolosamente a scolpire il proprio ventre grazie soltanto a una panca / elettrostimolatore / accrocchio composto da percentuali variabili di ferro gommapiuma e cavi. Il tutto senza stare a dieta, senza rinunciare alle donuts e senza vendere l’anima a satana.

…sia riuscito a comporre il triplano del barone rosso / il veliero del pirata nero / il pugnale di Jack lo squartatore comprando in edicola il kit di montaggio, disponibile in sole 110 comode uscite settimanali? Le difficoltà che mi sovvengono sono molteplici: possibile riuscire a non perdere alcuna uscita, nemmeno quando l’edicolante è chiuso per ferie? Plausibile non esaurire la pazienza prima di aver terminato la biennale raccolta? E soprattutto, esiste davvero una persona al mondo che non si incazzi come una vipera notando che la prima uscita costa un Euro, la seconda quasi tre e da lì in poi il prezzo di copertina cresce per potenze intere del numero di Nepero, per un esborso totale pari al 3% del debito pubblico?

…si sia preso la briga di tagliare un ciocco di legno con i coltelli Miracle Blade? Senza sentirsi un ebete, beninteso.

…abbia deciso consapevolmente di acquistare 15 suonerie per cellulare del valore di 1€ cadauna? O peggio abbia voluto pagare per ricevere lo sfondo del micio che lecca il display dall’interno? Riflettevo su questo aspetto qualche sera fa: in tv passava altisonante la scritta “indovina la risposta al quiz e vinci una tv al plasma, basta una telefonata” e la domanda in questione era qualcosa del tipo “quanti erano i sette nani?”. Facile, mi son detto. Peccato che in sovrimpressione compariva, piccolo piccolo e in carattere cirillico, la dicitura “la telefonata non da diritto a partecipare al gioco a premi ma garantisce l’acquisto di 15 suonerie per cellulare al prezzo di 15€ iva inclusa. Tra tutti i sottoscrittori verrà estratta a sorte la possibilità di rispondere al quiz”. Quando ho finito di tradurla ho imprecato forte…

…abbia smesso di scaricare film da internet perché al cinema ha visto il cortometraggio che in sintesi dice “non ruberesti mai una macchina… allora perché rubi un film?”. Ora, al di là dell’opinione che il codice penale si è fatto sullo scaricare materiale protetto da copyright da Internet, mi son costruito mentalmente un semplice diagramma di flusso perché proprio non capivo il senso di quel “disclaimer”. E ho concluso: perché paradossalmente questo spot moralizzatore se lo deve sorbire proprio chi, avendo pagato per vedere il film, non ne è destinatario e viceversa non verrà mai visto da chi invece quel film lo scarica da Internet e quindi dovrebbe sentirsi in colpa? Dopo pochi minuti di loop sono andato in schermata blu e il problema si è risolto da solo

…abbia sbadatamente ingoiato quattro pile formato mezza torcia? Oppure abbia pensato di infilare animali vivi in un forno a microonde e l’abbia poi acceso inavvertitamente alla massima potenza? O abbia perforato lo stereo appena acquistato a rate insanguinate, con un punteruolo arroventato. O, meglio ancora, conoscete qualcuno che premeditando di fare quanto sopra abbia desistito leggendo il libretto di istruzioni di un elettrodomestico? O addirittura che in un sommo impeto di libidine, leggendo il suddetto libretto abbia detto “azz, meno male che c’è scritto, poco ci manca che lo facevo davvero”?

…abbia comprato una multiproprietà a Marina Romea? E soprattutto l’abbia fatto dopo aver visto una di quelle televendite che sembrano ambientate sul set di “assassinio in pineta”?

…sia riuscito ad abbordare una gnoccolona in vacanza forte dell’accento spagnolo imparato con il corso di lingue “lo spagnolo per tutti”? E soprattutto, ancor prima di valutare accento e grammatica, conoscete qualcuno capace di inciuciare una bionda tutta curve con una frase sola (indipendentemente dalla lingua in cui questa frase è formulata) ?

Se in effetti riuscire nello scopo di farmi conoscere tutte queste persone vi sembra troppo arduo, fa niente. Concentratevi solo sulla gnoccolona dell’ultimo punto e datele la mia mail. Io sarò felice comunque.

Scritto Dopo: non è stato facile trovare una foto di Pamela Anderson completamente vestita, ma sono sicuro che avete apprezzato lo sforzo.

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