Io non so scrivere e questo incipit dovrebbe essere sufficiente a dimostrare se stesso. Scrivere non è un concetto così definito come potrebbe sembrare: troppi fattori vanno a comporre uno dei gesti più antichi del mondo, dopo l’omicidio e il mercimonio corporale. Bisogna considerare i destinatari (se ci sono) dello scritto e il tipo di rapporto che lo scrivente ha con loro (sempre e solo se ci sono), i limiti contestuali e linguistici, l’argomento e persino lo strumento utilizzato e il supporto che accoglierà il messaggio. Con un quaderno in mano e armati di lapis, non è difficile buttare giù parole, segni, fiorellini o incisioni rupestri. Ma con una cartolina capovolta davanti al naso si finisce spesso con la penna incastrata tra un incisivo e un premolare, con l’espressione della mucca che guarda il treno e la sensazione di avere un mocho vileda al posto del cervello. Dopo circa quarantacinque minuti, anche un nobel per la letteratura scriverà “saluti da pinarella di cervia. Giacoma e Tereso (nobel per la letteratura)”. Accorgendosi poi, nell’atto liberatorio dell’imbucamento, che sulla parte illustrata della cartolina campeggia la stessa identica frase, il che è curioso, considerando che vi trovate a carini di licata.
La mia incapacità grafocreativa a cui accennavo è quindi riferita al contesto che voi lettori, impegnati a non far capire ai vostri colleghi che state usando internet per leggere un blog invece di scandagliare siti porno e scaricare musica che non ascolterete mai, conoscete bene: il mondo dei postatori cibernetici. Questo malnato giudizio mi arriva diretto come un 18 sul libretto, nientepopò di meno (cioè esattamente il numero di popò che vedete) dalla reggente la cattedra di lettere moderne dell’università Secondo Federico di Napoli. Lettere moderne è quel corso di laurea che può tranquillamente sfociare in una tesi sull’uso del sospensorio nel balletto classico russo. Non deve quindi stupirvi che si discetti di blog o della valenza sociale della quadriglia. La docente, secondo gli appunti presi da una mia giovane amica, sostiene, anzi insegna (in quanto illuminante, quindi insegna al neon), che per assemblare a dovere un perfetto post in un blog che pretenda un numero di accessi pari a quello di studentessesbadatedimenticanolabiancheria.com, occorra essere concisi, diretti, parchi di aggettivi e di facile fruizione.
Il fatto che io abbia impiegato mezza pagina per dire “sono prolisso e complicato”, potrebbe insinuare il sospetto che se avessi frequentato quell’ateneo, non avrei passato un esame nemmeno presentandomi con gonna inguinale e calze a rete (atte a irretire) e io ho delle belle gambe! Nemmeno posso smentire l’oculata professoressa, avendo registrato nel mio sito, il passaggio a pelo d’acqua di un numero di navigatori appena inferiore a quello di bruttemaappiccicose.it.
Eppure qualche dubbio mi rimane. L’estrema sintesi coincide con l’interesse suscitato? Un messaggio scarno e sfronzolato (esse privativa) può favorire la quantità di destinatari, ma non ne pregiudica la qualità (non del messaggio, dei destinatari)? E soprattutto, la riga delle calze è storta?
Stringendo, è possibile che nei miei post io non comunichi gran ché, però mi sollazzo nel pensiero che il mio stile è riconoscibile, che chi torna, torna per il modo in cui affastello le parole una sull’altra, non perché è d’accordo con quello che dico o perché rivelo notizie in esclusiva. Certo se avessi le prove del complotto Kennedy, se sapessi perché Iaquinta gioca in nazionale o potessi dimostrare che dopo la morte c’è un campo da golf a 18 buche, probabilmente io potere scrivere anche con verbi a infinito e senza articoli che gente leggere mio blog uguale. Ma le cose che conosco io sono più o meno alla portata di tutti e la mia vita non è molto diversa da quella delle altre persone e anche se lo fosse sarebbero affari miei. Che cosa rimane da dire? Poco in realtà, ecco perché è tanto importante come dirlo, ecco perché con un po’ di originalità, qualcosa degna di nota, si riesce a trasmettere (mica come la rai) e soprattutto se non scrivessi così, perderei la fonte stessa della mia creatività, la spinta decisiva verso il foglio elettronico con tutti i bit a zero, cioè il fatto di ridere come un debosciato mentre scrivo. Poi non importa se qualcuno non coglie un acrobatico calambour, un’azzardata capriola linguistica o un sottointeso inteso troppo sotto. Si vede che non era per lui che stavo scrivendo quel pezzo.
Quindi non voglio imparare a scrivere. Anche perché è impossibile: possono insegnarvi la grammatica, possono istruirvi a scrivere lettere commerciali, a fare il giornalista di cronaca, ma un corso di scrittura creativa ha senso come un corso di alta statura o un corso di Picasso.
Se una cosa la dite bene o in un modo originale, può anche non esserci la cosa, tanto coserà lo stesso. E’ come quando ascolti la Unzicher parlare, magari emette solo ridolini e banalità, ma se ti giungono da quell’armonioso groviglio di tette e culi, ti sembra di ascoltare Heidegger che parla del cinquecentesimo anniversario della fondazione dell'università di Freiburg (che naturalmente è bello e ciò che è bello è sano, come postatore).
Ecco, diciamo che io scrivo con le tette di fuori. Con buona pace della nomenklatura accademica partenopea (lì la k ci vuole, non sto facendo il punkabbestia).
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