giovedì 14 settembre 2006

Sarti mortali


C’è stato un tempo, non ci crederete, in cui la Cina era lontana. Anzi, il mondo era lontano dalla Cina. Quell’immenso paese, ricco di omini, di storia, di carta di riso e canna di bambù, non voleva contaminarsi e proteggeva i propri giovani dall’epidemico morbo occidentale dell’edonismo e della ricerca del benessere. Per qualche sfuggente motivo, ciò non ha impedito ai simpatici orientali di creare piccole cine sparse in tutto il mondo. Pare ci sia una chinatown anche a Pechino.
In quegli anni, agli atleti cinesi non era concesso misurarsi in competizioni internazionali. Del resto erano in numero sufficiente ad organizzare dignitose cinesiadi (l’idea dei numeri sulle maglie è loro, per ovvi motivi, solo che loro usavano gli esponenti). I metodi di allenamento erano, con tutta probabilità impostati sulla massima disciplina psico-fisica, l’assoluta rigidità dei regolamenti e l’imperativo di ottenere risultati. Insomma non è che potevi fermarti a parlare con la tipa del nuoto sincronizzato e saltare un allenamento per limonare di nascosto sott’acqua (anche perché lei ci rimane molto di più e non smette certo di limonare: chi c’è c’è).
I tuffatori, in particolare, raggiunsero livelli tecnici sconosciuti nel resto del mondo. Pare grazie a tecniche di addestramento crudeli e massacranti. Non potevano uscire di casa dalla porta: dovevano lanciarsi dal balcone, eseguire almeno 4 carpiature per piano ed atterrare di testa direttamente nella risaia senza schizzare nemmeno una mondina.
Fatto sta che all’apertura delle frontiere sportive, la comunità tuffante internazionale restò sbigottita. I cinesi, in 3 metri di tuffo, piroettavano e carpiavano come una trottola impazzita, mentre il miglior atleta occidentale era fermo al tuffo bomba e la spanciata sincronizzata. Gli organismi internazionali dovettero inserire delle regole ad hoc per non rendere le gare delle pagliacciate. Furono vietati i tuffi in cui fosse impossibile contare a vista i mortali (non nel senso di esseri viventi tendenti al morente), nell’attesa che lo studio di nuove tecniche e di nuove medicine per la fiacca, mettessero tutti i tuffatori allo stesso livello.
In pratica, sono state necessarie nuove norme, per consentire lo svolgimento di eque competizioni. Lo stesso discorso vale oggi per il mercato economico e commerciale. La Cina apre le frontiere, ma in un’economia fondata sulla competizione le regole di base dovrebbero, in teoria, almeno somigliarsi vagamente. In Italia il costo del lavoro è altissimo ma la relativa cultura no. Qui un lavoratore che passa il tempo a grattarsi la pancia in attesa delle ferie, denuncia il datore di lavoro perché non gli piace come si veste e vince la causa. In Cina se un superiore pesta un piede a un impiegato, la famiglia del lavoratore rinuncia ai 2 giorni di ferie spettanti nell’anno, compra un paio di scarpe nuove e organizza una cerimonia per farne dono al superiore.
Le idee sono perlopiù copiate, la forza lavoro produce di più, in meno tempo, costando meno. Il grosso degli utili prodotti finisce nelle capienti tasche di una potente oligarchia, se a questo aggiungiamo che le normative doganali sono scritte a matita, in cinese antico, sul manuale delle giovani marmotte cinesi, si fa presto a considerare che, se non mangiamo ancora come dei panda è perché la Cina non ha ancora raggiunto un adeguato sviluppo tecnologico e qualitativo.
In questo panorama al tofu, Prodi San vola nel Canton vicino. Giunto dove Marco Polo (avo di Lacoste) giunse e, una volta chiarito l’equivoco su “reverendo Prodi”, scambiato per la solita presa per il culo, il nostro presidente elargisce sorrisi a mandorla come se fosse l’anno della mortadella. Dichiara che l’avvento (non esattamente ortodosso ndr) della Cina nel mercato mondiale è un’opportunità e non un pericolo. Per molti italiani impiegati nelle aziende tessili è stata sicuramente l’opportunità di trovarsi un altro lavoro o di sperimentare la propria mortalità, attraverso gli stenti. Ma il molto onolevole plodi parla della fiat! Ancora? C’è ancora qualcuno che ha il coraggio di usare la fiat come parametro di valutazione dell’industria italiana? L’unica grande azienda del nostro paese (a parte l’azienda stato), tenuta in piedi da 58 milioni di finanziatori coatti, oltre che clienti esacerbati! L’Italia produttiva non è la fiat (al limite ha la fiat), ma migliaia di piccole e medie imprese, soffocate dalla burocrazia e dalla concorrenza sleale. Certo, siamo correi del delitto che ci vede vittime, perché è anche grazie a commercianti senza scrupoli e acquirenti sconsiderati, che il sistema cina, sta mietendo vittime nostrane.
E il romanone nostro ride. Ospite in un paese dove la pena di morte è un piano educativo, dove le violazioni dei diritti umani fanno impallidire Guantanamo, dove il commercio internazionale si ispira a modelli da mercatino delle pulci su scala planetaria e i lavoratori sono tutelati solo nelle poche grandi aziende straniere…..il nostro primo ministro applaude soddisfatto, le grandi opportunità che la rinnovata fiducia e il dialogo, apriranno per i nostri antipodici paesi.
La prossima volta mandiamoci la triade: CGIL, CISL e UIL alla conquista dell’oriente!

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1 commento:

Anonimo ha detto...

Come si vede che non legge l'Unità esimio Cruman, la triplice andò la scorsa settimana in avanscoperta e ha già preannunciato lo sbarco nella terra del caolino fatto arte per portare la vera democrazia sindacale.

Quando al Prodigioso Prodi, sempre l'Unità docet, ha portato in Cina la coppa del mondo vinta in Germania.
Viaggio premio? Vuol incentivare il calcio cinese? E chi lo sa.