martedì 2 maggio 2006

Sperdersi in internet come sperdersi nei pensieri


Una questione nata con la diffusione di Internet riguarda la necessità di connessione al web delle reti di computer aziendali. Solo questo tipo di “apertura” permette di sfruttare i vantaggi che la rete comporta, dal semplice scambio di posta elettronica (più rapida ed economica della posta tradizionale) sino alla ricerca di notizie, facilitata dalla nuova tecnologia. Un minuto dopo che tutto ciò che abbiamo appena elencato è stato assunto come realtà assodata, sono nate questioni intorno alla liceità dell’uso che il lavoratore dipendente fa di Internet se questo non è strettamente connesso all’attività produttiva.
Indi, dal momento che l’impiego di programmi di messaggeria, la ricerca notizie di varia natura, il pascersi di immagini e video erotici, il consultare caselle e-mail diverse da quella “aziendale” e via discorrendo possono non essere esattamente in linea con l’interesse del datore di lavoro, ecco il coagularsi della reprimenda contro i navigatori clandestini. Lettere di richiamo, software sbarrati, licenziamenti, ricatti, strumentalizzazioni, controlli non autorizzati hanno portato a galla un difetto di comunicazione fra chi in una determinata situazione paga il collegamento a Internet (il datore di lavoro) presumendo che ciò gli porti dei vantaggi, e chi invece usa detto collegamento a Internet in quanto ciò gli porta dei vantaggi (il dipendente).
Il difetto di comunicazione risiede nel fatto che una delle parti potrebbe essere portata a sostenere che detti vantaggi non coincidono, e guarda caso questa parte è quella che paga il collegamento a Internet.
Ma affermare che i dipendenti navigatori, se navigatori non fossero, renderebbero di più, equivale a dire che i dipendenti navigatori, se navigatori non fossero, renderebbero di meno: non rinvigoriti dai messaggi dell’amante, non rinfrancati dalle note tettine di Paris Hilton, non stimolati a essere al passo coi tempi dopo aver letto l’ultimo gossip, costoro potrebbero davvero comportarsi come grigi travet senza fantasia, anziché come brillanti opinionisti che signoreggiano il loro tempo e – conversando con chicchessia – fanno sempre la figura di persone di mondo.
Quindi abolire l’Internet libera sul luogo di lavoro, ovvero voler influire sulle modalità con cui vi si ricorre, ovvero effettuare un controllo diretto o indiretto sull’attività natante dei dipendenti, ‘un si pòle. Chi l’ha detto?
Andatevi a vedere http://www.shinynews.it/diritto/0306-vietato-spiare.shtml e lo saprete. Potete tranquillamente farlo anche se siete in ufficio, perché scoprirete che nessuno può più rimproverarvi nulla. Poi però tornate qui.
Siete andati? Avete letto? Bene. Allora forse avrete dedotto – perché non c’è scritto, ma si evince – che andar per Internet è considerato come pensare, volare di fantasia, ricordarsi di un bel momento o di un momento brutto, ragionare sul prossimo fine settimana: tutte cose che è normale, e spesso automatico e inevitabile, fare anche mentre si lavora. Tutte cose che possono distrarre oppure no, ma se ciò accade dipende solo dal rapporto fra pensiero e pensatore. La differenza fra i pensieri e la cronologia di Internet è che i primi non si vedono (al massimo si vede l’espressione assente del pensatore), mentre la seconda sì. Ma evidentemente si va affermando la convinzione che consultarla sia un po’ invadere la sfera altrui, come se si pretendesse di guardare dentro i pensieri delle persone. Il problema, semmai, è ridefinire il concetto di concentrazione e assiduità sul lavoro in presenza delle cosiddette tecnologie sempre attive, che sarebbero quelle che non spegni mai, che consideri latenti finché non ti arriva una mail o un messaggio e allora ti si accende la lampadina. Se quest’ultima frase vi ha suggerito un parallelo col cervello, allora vuol dire che potete ancora salvarvi.

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