mercoledì 14 febbraio 2007

Pacco generazionale


Seguo sempre con estrema attenzione i servizi e gli articoli dedicati ai grandi imprenditori. Da sognatore quale sono, infatti, amo pensare che in queste storie di successo si celi qualche spunto che un comune mortale possa sfruttare per cogliere un’illuminazione, un’idea o anche solo una botta di coraggio per provare a tuffarsi in qualcosa di più stimolante dell’indossare una cravatta regimental invece di quella a tinta unita. Purtroppo il mio rapporto con questo genere di articoli non è tutto rose e fiori, e che ci crediate o no ci son cose che mi fanno incupire anche di più del compenso giornaliero di Cimoli o dell’ultimo vaneggiamento di Matarrese. Stando all’autorevole parere di ben pagati analisti ex-bocconiani, il problema principale dell’industria italiana è lo scarso dinamismo. Non mi spiego come sia possibile: qualsiasi neolaureato che vagli le proposte di lavoro divulgate dai media non ha che da accomodarsi e riempirsi la bocca: si cercano persone dinamiche, dotate di attitudine al cambiamento, adatte al lavoro in team e disposte a mettersi in gioco. Che sia così difficile trovarle? Non credo il problema sia quello, ma piuttosto sapere che farsene di persone simili una volta assunte. Perché la verità è che annunci di questo tipo sono utili solo per compiacere gli azionisti se questo turbinio di dinamismo resta fermo ai piani bassi dell’azienda. Parlo con miei coetanei e assorbo con un pizzico di sgomento aneddoti che parlano di IT manager che non sanno usare un cellulare, o di amministratori delegati restii a comprare un biglietto aereo su internet. Ciò che è scritto in molte mission aziendali è più vero di quanto non si creda, specialmente il vecchio adagio “l’azienda è a immagine delle persone che ci lavorano”. Senza disquisire sul fatto che purtroppo son poche le realtà in cui una poltrona si conquista per meritocrazia, di certo c’è che nei ruoli strategici si è indotto un meccanismo perverso che vuole senatori a vita quale unica garanzia della continuità aziendale. Che la politica abbia fatto scuola?
Ma che se ne fanno le aziende di giovani con spiccate attitudini al lavoro in team se a capo di questi mettono un dispotico accentratore preoccupato solo di rimanere abbastanza indispensabile per non perdere la poltrona anche dopo l’età pensionabile? A che servono dinamismo e flessibilità se le innovazioni vengono valutate da chi considera la nuova versione di Office un problema insormontabile?
Continuando a sognare, perdipiù, mi piacerebbe che il discorso di cui sopra non venisse snaturato estremizzandolo dall’altro verso. No, non ritengo che un’azienda con decenni di storia alle spalle debba essere data in mano a un neolaureato (nemmeno per nepotismo, guarda un po’), e non penso nemmeno che la chiave del successo sia seguire come una banderuola al vento ogni cambiamento delle best practise tanto cara agli aziendalisti americani. Semplicemente mi piacerebbe che concetti come quello espresso da Luca Josi e provocatoriamente formalizzato nel suo “patto generazionale” diventassero una sorte di policy aziendale non scritta, un gentlemen agreement tra l’azienda e i suoi dipendenti. So che non è facile, sarebbe come chiedere alle istituzioni di farsi carico dei problemi dei cittadini anziché delegarli a Capitan Ventosa. Ma non è una richiesta così strampalata. Non son certo di condividere appieno quanto scritto nel patto in questione, ma di sicuro alcuni passi vorrei averli scritti io. E benché le petizioni via internet godano di poca credibilità (presumibilmente per la difficoltà di controllare l’effettiva esistenza dei sottoscrittori) e siano a mio parere perfette per lanciare l’abolizione dei costi di ricarica delle sim prepagate ma non certo per un tema come questo, mi piace constatare – ammesso che ciò sia veritiero, purtroppo non ho i mezzi ne le conoscenze per controllarne la veridicità – che l’iniziativa in questione sia stata sottoscritta da persone che da questo gesto non traggono alcun tangibile vantaggio se non in termini di onestà intellettuale. Un certo signor Profumo, per dire, non ha bisogno di far le scarpe ad alcuna cariatide per arrivare al vertice di un'azienda. Ci si trova già. Ma sottoscrivendo questo patto ha in qualche modo sancito la propria volontà a non invecchiare sulla stessa poltrona vita natural durante (un vero peccato, viste le buonuscite che si aggiudicano certi top manager esonerati dai cda), a favore del rinnovamento e della dinamicità che tanto manca alle imprese italiane (e all’azienda Italia in primis) per colmare il gap con il resto del mondo. Ma c’è di più: se un patto del genere l’avesse sottoscritto ai tempi del suo debutto un famoso Giulio della politica italiana (non Cesare, uno più recente anche se di poco), state pur certi che sarebbe ben difficile riuscire a rinfacciarglielo oggi. Lo stesso non si può dire per l’iniziativa di cui sopra: la memoria di Google, infatti, sarà di supporto a qualsiasi Capitan Ventosa del futuro prossimo. Chissà che davvero anche nel belpaese non capiti di avere a che fare con qualche leader quarantenne con un bagaglio di vent’anni di ruoli di responsabilità alle spalle.

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